Il Pd e la sua battaglia interna/2. Renzi fa slittare le riforme a ottobre: “non voglio liti alle Feste dell’Unità” Dopo l’Assemblea nazionale, presto via al rimpastino

19 Luglio 2015 0 Di Ettore Maria Colombo
Matteo Renzi vota al suo seggio di Pontassieve (Firenze).

Matteo Renzi vota nel suo seggio di Pontassieve (Firenze).

«NON ci conviene andare ai materassi con la minoranza sulle riforme a luglio, agosto e settembre, quando ci sono le Feste dell’Unità: i militanti ci aggredirebbero per una lite di troppo con Bersani o Speranza o per aver imbarcato in maggioranza Verdini e i suoi. Molto meglio aspettare ottobre: faremo tutto insieme, riforme istituzionali, da chiudere a stretto giro, e legge di Stabilità, che sarà improntnta a una forte logica di crescita». Il ragionamento arriva dai piani alti del Nazareno e la sua, stringente, logica (e tattica) è: meglio la gallina domani dell’uovo oggi. O, per dirla con il caro vecchio Pier Luigi Bersani, “non si può tenere il piccione sul tetto”, massima che Renzi definì, allora, incomprensibile.
E fa il paio, il «ragionamento» dei renziani più «trattativisti» (quelli «radical-oltranzisti», tipo la ministra Boschi, vorrebbero vedere le loro riforme fatte «bene, tutte e anche subito»)
con un altro scenario che sta prendendo piede nel «giglio magico» (toscano, certo ma pure proveniente da altre regioni): far slittare il referendum confermativo sulle riforme istituzionali dal giugno 2016, quando si voterà per le amministrative in molte città e quando si credeva che Renzi avrebbe voluto tenerlo, cioè insieme alle prossime comunali, a ottobre del 2016. Lo slittamento servirebbe al nuovo percorso individuato da Renzi: fare in modo che, sull’onda dell’inevitabile ‘plebiscito’ ottenuto nel referendum, il premier-segretario possa chiedere (o essere tentato) da elezioni politiche anticipate (data probabile: primavera 2017), un anno prima la teorica fine naturale della legislatura (2018).
Scenari, si capisce, ma di cui si ragiona assai, tra palazzo Chigi e il Nazareno, in vista della consueta e annuale Assemblea nazionale del Pd che si aprirà oggi a Milano.
Certo che, «dall’Alpe alla Sicilia», per citare il Poeta, il Pd è nei guai. Renzi, le personalità politiche improvvisate e «populiste» come Crocetta, Marino (ed Emiliano), le detesta e le vorrebbe rovesciare. Ma mezzo Pd, per la prima volta da quando ne è diventato leader, gli rema contro: la minoranza, vari ras locali, tutti molto potenti, e ora pure i Giovani Turchi (Orfini a Roma, Raciti in Sicilia).  Urgeva una qualsivoglia strategia per uscire da un cul de sac fatto, anche, di fastidiose intercettazioni che coinvolgono direttamente i piani alti di palazzo Chigi.
Il premier-segretario aprirà l’Assemblea che il Pd farà all-’Expo (assenti Bersani, D’Alema, Bindi, presenti Speranza e Cuperlo, sul piede di guerra per il possibile approdo dei verdiniani e cosentiniani al governo), con un discorso dei suoi: «Parlerà poco del Pd, molto del governo e soprattutto dell’Italia perché ora mettiamo il turbo», dicono i suoi.
ECCO, mica pare ci sia, il ‘turbo’. Unioni civili e riforma Rai impantanate, riforme istituzionali rinviate a settembre per il «quieto vivere» di cui si diceva prima, etc. Anche il rimpasto di governo della «fase 2» del «Renzi 1» (sic), sarà più che altro un «rimpastino». Enzo Amendola (quota «Sinistra è cambiamento» di Martina&co.) andrà agli Esteri, Cesare Damiano non andrà allo Sviluppo Economico («io ho fatto il ministro, non farò mai il vice di altri», pare abbia detto lui, declinando). Scelta Civica avrà il suo strapuntino (ma non Valentina Vezzali, la schermitrice campionessa), e Ncd pure (agli Affari regionali andrà Gaetano Quagliariello) più altri spiccioli ai partiti minori. Più interessante la partita delle Commissioni parlamentari: al Senato è tutto rinviato a settembre (dove pure c’è da sostituire Azzollini, alla cruciale commssione Bilancio, Nitto Palma alla Giustizia, etc.), ma alla Camera si decide tutto martedì prossimo, 21 luglio. Non a caso, il Pd, per quel giorno, ha convocato la sua assemblea di gruppo, alla Camera. Al fianco di Ettore Rosato, neo capogruppo già nominato, di ascendenza franceschiniana, ma oggi renziano di ferro, come vicario reggente ci sarà il lombardo Matteo Mauri, dell’area del ministro Martina («È lui il Giuda che si è venduto per trenta denari», sibilano dalla minoranza dei duri e puri). Le presidenze delle quattro commissioni oggi in mano a FI (Capezzone alle Finanze, Sisto agli Affari costituzionali, Vito alla Difesa, Galan alla Cultura) salteranno tutte: al loro posto andranno un ‘civico’ di Sc, un ‘Popolare per l’Italia’ o Ncd e due Pd. I nomi forti che girano tra i dem sono quelli del veltroniano Andrea Martella (Finanze) e del catto-renziano Matteo Richetti o di Lele Fiano (Affari costituzionali) mentre Li Causi (veltroniano) dovrebbe essere dirottato a fare il vicesindaco di Marino nel rimpasto della nuova giunta capitolina. Intanto, quasi ogni giorno, nuove correnti nascono all’ombra del renzismo ortodosso: dagli ex popolari ed ex lettiani tosco-umbro-emilian-lombardi di ‘Progetto Democratico’ (Benamati, Senaldi, Cova, Bazoli, etc) ai post-civatiani e post-ulivisti di Scalfarotto, Zampa e altri. E pure questo non è buon segno, direbbe ogni ex segretario Pd che ne ha memoria.


NB. Questo articolo è stato pubblicato il 18 luglio 2015 a pagina 10 del Quotidiano Nazionale