Commissioni parlamentari, giro di valzer. Renzi usa il ‘manuale Cencelli’ per accontentare gli appetiti dei ‘piccoli’. Presto cambierà anche lo statuto del gruppo Pd: pugno di ferro contro i ribelli

22 Luglio 2015 0 Di Ettore Maria Colombo

L'aula di Montecitorio vista dall'internoROMA – «CARNEADE chi era costui?» si chiedeva, cogitabondo, don Abbondio, in un passo famoso (e cult) dei Promessi Sposi del ‘grande italiano’ Alessandro Manzoni

 

La frase s’attaglia alla perfezione ad Andrea Mazziotti di Celso. Il milite ignoto in questione era, fino a ieri, un deputato di Scelta civica, ma da oggi Mazziotti di Celso (figlio di illustre costituzionalista, Manlio, oltre che di antico sangue blu che gli scorre, sapido, nelle vene) è il nuovo presidente della I commissione, Affari costituzionali, della Camera dei Deputati, uno degli scranni più prestigiosi di Montecitorio e, in generale, del Parlamento, riuscendo nella nobile impresa di sbaragliare concorrenti ben più titolati, in teoria, di lui come i dem Emanuele Fiano (capogruppo) e Matteo Richetti. A lui, Mazziotti, s’accompagna l’annunciata ‘rivoluzione’ di metà mandato nelle commissioni parlamentari permanenti, ma non bicamerali (per capirsi: Antimafia, Rai, Casse di previdenza non si toccano, per legge, in quanto si tratta di commissioni permanenti) che ha riguardato, ieri, la Camera (cinque le novità) e che il Senato, invece, affronterà solo a settembre.

Il «carneade» Mazziotti aveva, però, tutt’altro santo, in Paradiso. Infatti, il suo partito (fondato da Mario Monti, dissoltosi, rinato, almeno così pare) è oggi in mano a Enrico Zanetti. Sottosegretario al Mef, segretario di Sc, nonostante percentuali vicine allo zero virgola, Zanetti – che è veneziano e, prima di far politica, faceva il commercialista – ha preso la calcolatrice ed è andato dal premier, per una visita di (presunta) cortesia: «Alla Camera di civici siamo 23 (ma zero al Senato, zero in Europa, zero nelle Regioni, ndr), caro Matteo. Vuoi governare? Bene, il nostro prezzo giusto è: 1 commissione + 1 sottosegretario».

RENZI s’è dovuto adattare con tanto di rispolvero del mitico Manuale Cencelli, che furoreggiava già ai tempi della Prima Repubblica (consigliamo, al colto e all’inclita, il libro omonimo, Il manuale Cencelli, Editori Riuniti, a cura del compianto giornalista parlamentare Renato Venditti, una vita passata tra Paese Sera e l’Unità, ndr.) e così dovrà fare anche per il futuro rimpasto di governo, che sia presto o a settembre. Infatti, anche lì giocano, e in “serie A”, altri sconosciuti ma importanti «Carneadi»: ci sono i Popolari per l’Italia (D’Onghia), i Popolari-Demos (Oliviero, Giro), Scelta civica, il Psi e altri partitini. Tutti famelici e tutti da accontentare. Al Senato, per dire, Sc non esiste (più), ma i Popolari-Demos (scissione di scissione di Sc) sì: 13 alla Camera, 5 al Senato, hanno già fatto sapere al premier che, “loro”, pesano come l’oro.

S’è pensato bene, a palazzo Chigi, di correre ai ripari e compensarli con relativa cadrega, ma alla Camera, dove possono (in teoria) fare meno danni, e sottraendola proprio a Sc. Infatti, al posto di Pierpaolo Vargiù, a presiedere la commissione Affari sociali, va l’ex portavoce della comunità di Sant’Egidio (serio e competente, almeno lui), nonché catto-sociale, Mario Marazziti.

C’è da dire che anche il doppio cognome «serve», come la serva di Totò, per diventare presidente di commissione. Infatti, ce l’hanno in tre su quattro, ai vertici delle commissioni.

Oltre a Mazziotti, c’è, per dire, Flavia Piccoli Nardelli (sì, è la figlia di Flaminio Piccoli, antico segretario Dc e artefice del famoso “Preambolo” che, nel 1981, grazie all’alleanza tra Forlani, Andreotti e, appunto, il papaà di Flavia, mandò a casa “l’onesto Zac” e la sinistra dc, quella del compromesso storico): va a riempire il terribile vuoto che si era creato in commissione Cultura causa assenza forzosa (FI, attualmente agli arresti domiciliari) di Giancarlo Galan (mai volutosi dimettere dall’incarico, detto per inciso). Poi c’è un altro doppio nome, più che cognome, quello Francesco Saverio Garofani: ex vicedirettore di due giornali della Dc e Margherita che fu (airdaje), il Popolo ed Europa, consigliere di Mattarella, Garofani (Pd) guiderà la commissione Difesa al posto di Elio Vito (FI), il quale ha cercato in tutti i modi, ma del tutto inutilmente, di autoconservarsi il posto.
Solo un cognome, non doppio, ma altrettanto “Carneade” è quello del milanese Maurizio Bernardo (Ncd): va alla commissione Finanze al posto del fittiano Daniele Capezzone, ma lì, a far guerra per il Sancho Panza di turno, s’è imposto Alfano in versione don Chisciotte
Certo è che, dal 2013, quando le commissioni parlamentari furono nominate per la prima volta in questa legislatura, a ieri, quando sono state rinnovate, sembra passato un secolo. Almeno per l’M5S, di sicuro: tra governo Letta non ancora in carica, caos istituzionale, larghe intese Pd-Pdl alle porte e Pd allora a guida Bersani nel pieno del “pallone”, era riuscito a strappare otto vicepresidenze, 11 segretari e un vicepresidente d’aula (Di Maio). Glieli hanno tolti tutti, i vicepresidenti, tranne due e subito i grillini hanno gridato al «golpe», accusando anche le altre opposizioni (SeL, Fd’It, etc.) di essersi accontentati degli “strapuntini” (vero). Assai peggio, però, è andata a Forza Italia: quattro presidenti aveva, quattro ne perde. Un vero «cappotto», anche se edulcorato da un paio di vicepresidenze guadagnate per i «lealisti» berluscones a scapito dei «fittiani», rimasti a becco asciutto.

IL BAROMETRO segna, in teoria, bel tempo, invece, per la minoranza dem: tutti i presidenti di area sono stati riconfermati. Ma se si guarda bene, si scopre che Epifani è stato in forse fino all’ultimo (il sottosegretario Luca Lotti pare che volesse farlo fuori, poi Renzi si è scoperto in versione “buonista” e ha lasciato correre, riconfermandolo), per la conferma alla testa della commissione Attività Produttive; Boccia, che guida la cruciale Bilancio, ha dovuto silenziarsi nelle polemiche contro il governo e Cesare Damiano, a capo della commissione Lavoro, è da tempo considerato un «lealista» molto responsabile. Insomma, il bottino è magro, per la minoranza, altro che chiacchiere. E la vera ciliegina sulla torta sta nel nuovo Statuto del gruppo che diventerà come quello votato dal partito all’Assemblea Nazionale: le decisioni prese in comune diventeranno «vincolanti» per tutti.

Tradotto: addio voti «ribelli». Se ne occuperà, di studiare il nuovo regolamento, una commissione ad hoc, che studierà, vaglierà e poi porterà all’assemblea del gruppo le sue conclusioni, ma già si sa come andrà a finire: i voti ribelli saranno limitati e circoscritti esclusivamente alle “questioni di coscienza” (i temi etici) e non più possibili sui voti politici, voto di fiducia al governo in testa. Insomma, altri casi Civati (o Fassina) non saranno più tollerati, pena l’espulsione. De te, D’Attorre, fabula narratur... Del resto, il pugno di ferro della nuova gestione, in mano a Ettore Rosato e ora affiancato da Matteo Mauri (ex tesoriere del gruppo, dove approda l’ex dalemiano Marantelli) come vicario, già si sente. E, presto, inizierà a far male, sulla pelle dei dissidenti. Senza il contestuale guanto di velluto.


NB. Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2015 a pagina 10 del Quotidiano Nazionale (http://www.quotidiano.net)