AGGIORNAMENTO! Morire per l’articolo 2? Vademecum in attesa della battaglia sulla riforma del Senato

5 Settembre 2015 1 Di Ettore Maria Colombo
L'attuale composizione del Senato (agosto 2015)

L’attuale composizione del Senato (agosto 2015)

PREMESSA
Il prossimo 8 settembre riprenderà, in I commissione Affari costituzionali (presidente Anna Finocchiaro, Pd) del Senato, l’esame del ddl Boschi (riforma del Senato e Titolo V).
La questione ‘politica’ – scontro interno al Pd tra maggioranza e minoranza sul Senato elettivo; scontro tra il Pd e le opposizioni sulla riforma in sé; problemi di tenuta interna alla maggioranza tra Pd-Ncd-etc. – nasconde una serie di questioni ‘tecniche’, comunque rilevanti. Per una volta, evitiamo di affrontare la questione ‘politica’ per affrontare solo quelle ‘tecniche’, sperando di fare servizio utile ai ’25 lettori’ di questo blog.

1) IL TESTO DEL DDL BOSCHI E LE SUE MODIFICHE

Il ddl Boschi (n. 1429) a prime firme Renzi-Boschi (nome intero: “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di finanziamento delle istituzione, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della II parte della Costituzione”) è stato approvato, in prima deliberazione, dal Senato l’8 agosto 2014 (183 i sì, compreso il gruppo di FI, quattro gli astenuti e tutte le altre forze di opposizione uscite dall’Aula), e, con modifiche, sempre in prima deliberazione, dalla Camera l’11 marzo 2015 (357 sì, 125 no, 7 astenuti). Ergo, siamo ancora ‘dentro’ la I lettura (finché il testo non è identico).

L’ARTICOLO 1: FUNZIONI DEL FUTURO SENATO

All’art. 1 (Modifiche al Titolo I della II Parte Cost) il ddl modifica l’art 55 Cost (poteri e funzioni del futuro Senato).
Qui sono, e di certo ci saranno, diverse possibili modifiche, come ammettono anche gli esponenti della maggioranza Pd. Infatti, nel primo passaggio parlamentare (Senato-Camera) competenze e funzioni, modalità di elezione degli organi di garanzia (CSM, Consulta, Capo dello Stato, etc.), ma anche politiche pubbliche locali, rapporti Ue-regioni-enti locali, etc., sono state di molto ridotte o elencate come mera funzione ‘concorrente’ alla Camera. Poche le funzioni del solo Senato, esercitate in “via esclusiva” che resterebbero tali: evaporate i rapporti con la commissione Ue, il controllo sulle authority, le competenze sui temi di bioetica, famiglia, diritti, etc. In più, tolte dalla Camera al Senato materie su cui la Camera alta sperava di poter avere diritto di parola anche in futuro: protezione civile, immigrazione, ordine pubblico, sicurezza, tutela del paesaggio. Inoltre, verrebbero ridotti i tempi per le osservazioni possibili nel procedimento legislativo. Problematico e assai discusso dai costituzionalisti anche la futura deliberazione dello stato di guerra che, nel ddl Boschi, è affidato a una sola Camera, il che avviene in pochissimi paesi (Irlanda, Polonia, Slovenia, peraltro tutti eletti con il sistema proporzionale) e che così, ‘grazie’ all’Italicum, finirebbe in mano al partito di maggioranza relativa.
Altra delicata questione è quella dei quorum per eleggere i diversi organi di garanzia costituzionale (art. 21 ddl Boschi che riforma l’art. 83 Costituzione): elimina gli attuali ‘grandi elettori’ (delegati regionali) per eleggere il Capo dello Stato e prevede un nuovo sistema di quorum, ben più alto rispetto quello originario (due/terzi della maggioranza del Parlamento in seduta comune, dal IV scrutinio basterà la maggioranza dei tre/quinti assemblea e, dal settimo scrutinio in poi, dei tre/quinti degli aventi diritto).
Ma data la riduzione dei senatori a 100 e l’entrata in vigore dell’Italicum (340 seggi al primo partito) per la Camera, anche questa formulazione è considerata poco di garanzia: un partito potrebbe eleggersi, solo con qualche senatore di soccorso, il Capo di Stato. Problemi simili si riscontrano per l’elezione dei cinque giudici costituzionali (Consulta) che la Camera ha riportato nelle competenze delle Camere riuniti con i senatori che hanno poche chances di pesare nell’elezione dei giudici rispetto alla gran massa dei 630 deputati (nella versione originaria il Senato ne eleggeva due su cinque).
La Finocchiaro, strenuo difensore della riforma, a partire dalla non elettività dei futuri senatori, ha detto – nella sua relazione in I commissione, a fine luglio – che delle funzioni del nuovo Senato bisogna parlarne (e, quindi, modificarle) perché “se la Camera è il perno della forma di governo, il Senato deve essere il perno della forma di Stato”.
Peraltro, è possibile e abbastanza agevoli apportare modifiche all’art. 1 come ad altri articoli del ddl, perché già modificati dalla Camera, dove tornerebbero solo nelle parti modificate e non dovendo ricominciare da capo. Morale: l’iter del nuovo esame sarebbe assai velocizzato e non supererebbe i tempi tecnici richiesti dalla sua approvazione.

L’ARTICOLO 2: ELETTIVITÀ DEI FUTURI SENATORI

All’art 2 (composizione ed elezione del Senato, che modifica l’art. 57 della Costituzione), l’articolo più “incandescente” e al centro del braccio di ferro tra la maggioranza e la minoranza Pd, in quanto riguarda l’elettività indiretta, come propone il testo del governo, o diretta, come chiede la minoranza, dei futuri senatori, la situazione è la seguente:
Il I comma resta identico: “il Senato è composto da 95 senatori “rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori nominati dal Presidente della Repubblica”.
Il II comma resta identico. “I consigli regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano eleggono i senatori con metodo proporzionale e, uno per ciascuno, tra i loro sindaci.
Il III comma resta identico: “Nessuna regione può avere meno di due senatori, ciascuna delle Province aut di Trento e Bolzano ne ha due” (in totale: 4, ndr.).
Il IV comma resta identico. “La ripartizione dei seggi tra le Regioni si effettua in proporzione alla loro popolazione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti”.
Il V comma è stato invece MODIFICATO dalla Camera. “La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali ‘NEI’ quali sono stati eletti”, come era scritto nel TESTO ORIGINARIO, è DIVENTATO ‘DAI’ QUALI (modifica apportata dalla Camera) “sono stati eletti”.
Il VI comma resta  identico: “con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato tra i consiglieri regionali e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale. i seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio”.

2) IL BUSILLIS: UNA PREPOSIZIONE VA RIVOTATA?

Il problema che sta nel cambiamento della preposizione citata riguarda, in realtà, non l’elezione di ‘tutti’ i futuri senatori (100 in totale, di cui: 74 consiglieri regionali, 21 sindaci, cinque ex Capi di Stato o senatori a vita, ma eletti per 7 anni e non rinnovabili, a differenza degli altri 95, eletti invece per 5 anni), ma solo dei 21 sindaci: secondo il testo modificato dalla Camera i 21 sindaci resterebbero in carica al Senato anche dopo la cessazione del loro mandato in Comune! Ergo, il numero dei senatori potrebbe crescere o decrescere, a ‘fisarmonica’….
“Una evidente contraddizione che va risolta” ha detto più volte anche il presidente del Senato, Pietro Grasso (la prima volta alla cerimonia del Ventaglio a fine luglio, poi ora, a fine agosto), parlando di “possibile contraddizione che riguarda il mandato dei senatori sindaci che potrebbero mantenere il ruolo di senatori senza più esercitare le funzioni di governo locale, per tutto il tempo della consiliatura che li ha eletti” (questo il ‘baco’).
La posizione originaria del governo e della maggioranza era che l’art. 2 era intoccabile a causa di un “doppio voto conforme” (di questa opinione la presidente della I commissione, Finocchiaro) e che la modifica intervenuta (da ‘dei’ a ‘nei’) era solo lessicale, dunque non inficiava l’immodificabilità dell’art. 2.
Ma a causa della voglia di Grasso di riaprire la partita, ora la nuova posizione (il capogruppo Zanda, ma anche Tonini a QN) è di aprire alla modifica solo del IV comma, senza toccare tutto il resto dell’art. 2, dunque senza ulteriore ‘navetta’ parlamentare.
La possibilità di emendare (o non emendare) l’art. 2 sta in capo all’art. 104 del regolamento del Senato, che dice che “nuovi emendamenti possono essere presi in considerazione solo se si trovino in diretta correlazione con gli emendamenti introdotti dalla Camera”. Secondo il Regolamento, dunque, non si potrebbe, ma il precedente c’è e lo ha tirato fuori Michele Ainis. La riforma della Devolution, poi bocciata dal referendum confermativa, fu rivotata nel passaggio in cui il Senato diceva “in ogni caso in cui” e quello della Camera “in ogni caso che”: il Senato lo rivotò da capo, in nuova dizione, il 15 marzo 2005.
L’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha scritto che non si può tornare indietro sull’elettività (o, meglio, la non elettività) perché a quel punto sarebbe “insostenibile” sottrarre al Senato il potere di dare la fiducia al governo e si ricadrebbe nel bicameralismo paritario. Peraltro, i senatori eletti direttamente lo sarebbero eletti, negli emendamenti della minoranza dem, con il proporzionale puro mentre la Camera è prevista eletta con un sistema, l’Italicum, che è di fatto un sistema maggioritario: così si tornerebbe a una totale discrepanza tra i due sistemi elettorali. I costituzionalisti sono divisi sul punto, chi a favore e chi contro.
La Finocchiaro ha comunque detto, nella sua relazione a fine luglio, che, se c’è da correggere e riaprire la discussione sull’art. 2 si può farlo solo su quel comma (il passaggio da ‘dei’ a ‘nei’, altrimenti “si finisce con il mettere in discussione tutto il disegno riformatore, assumendosi la responsabilità di riavviare l’intero procedimento e così ponendo nel nulla il lavoro fin qui compiuto”. Inoltre, la Finocchiaro ha sottolineato che l’ultima parola, pur dovendo tenere in conto la sua opinione, spetta però al presidente Grasso (“è ineludibile che ogni decisione sull’ammissibilità degli emendamenti debba trovare di concorde avviso presidente della commissione e presidente del Senato”).
In ogni caso, la questione va risolta: quando decadono i senatori-sindaci se vengono sfiduciati prima della fine del loro mandato o se si dimettono in via anticipata? Nella versione originaria (organi ‘nei’ quali sono stati eletti, cioè i consigli regionali) dovevano dimettersi subito anche da senatori, nella versione votata alla Camera (organi ‘dai’ quali sono stati eletti) l’ambiguità potrebbe far restare senatori anche degli ex sindaci!
Infine, non essendo mai esplicitata la dicitura ‘governatori’ delle regioni, questi potrebbero risultare non eletti, se non votati dal consiglio regionale e/o dagli elettori, nel futuro Senato. Questo uno dei tanti ‘bachi’ (tra gli altri, lo stato di guerra, che dichiara solo la Camera, i poteri del Senato, molto ridimensionati, i quorum per eleggere gli organi costituzionali di garanzia, troppo alti, etc.) che il Servizio Studi del Senato (la ‘trimurti’ composta da Grasso-Serafini-altri più i funzionari del centro studi diretto dal dott Luca Borsi, come raccontato su QN ad agosto) hanno trovato al ddl Boschi ed evidenziato, con buona perfidia, nel dossier del Senato pubblicato ad agosto e disponibile online.

3) UNA BATTAGLIA A COLPI DI EMENDAMENTI

La I commissione Affari costituzionali è stata convocata per l’8 settembre. davanti a sé ha una mole mostruosa di emendamenti: 513 mila di cui 510 mila ‘solo’ a prima firma Roberto Calderoli. Dopo qualche giorno di dibattito che di certo ci sarà, quasi sicuramente la Finocchiaro chiederà di passare Direttamente all’Aula, anche se facendo così il testo vi finirebbe senza relatore.
C’è anche un problema legato alle presenze e alle sostituzioni in I commissione: allo stato, se i senatori ribelli vengono computati nelle opposizioni e NON nella maggioranza, il governo è sotto (14 a 13 per le opposizioni, sulla carta sarebbe 15 a 12 per il governo, computando però anche la presidente Finocchiaro, che di solito per prassi non vota, e i tre senatori della minoranza dem Gotor, Lo Moro e Migliavacca), ma Mario Mauro (Gal-Popolari per l’Italia, anti-ddl Boschi e anti-governo Renzi) sarà sostituito a breve per un riequilibrio dentro Gal che dovrebbe favorire la maggioranza. Problemi per la maggioranza ve ne sono anche dentro la Giunta per il Regolamento a cui Grasso potrebbe decidere di demandare e dirimere la questione sull’emendabilità dell’art. 2. Anche qui, Grasso ritarda le sostituzioni che vedono sotto, numericamente, il governo.

A) 170 EMENDAMENTI PRO SENATO ELETTIVO

Sono 170 i senatori (compresi i 28 della minoranza dem) e sei i gruppi parlamentari (FI-Lega-Gal-Autonomie-M5S-Misto con Sel) che hanno firmato emendamenti a favore dell’elettività diretta dei senatori. In ogni caso, se le firme sugli emendamenti della minoranza Pd sono 28, la minoranza (dai dati loro forniti) è fissata a 25 unità (i firmatari degli emendamenti contrari all’Italicum) e i loro emendamenti contro il ddl Boschi sono 17. Gli emendamenti all’art. 2 sono comunque ‘solo’ 2800, in totale, ma poi ci sono i circa 3 mila gli emendamenti degli altri gruppi (1.075 di Forza Italia, 1.043 quelli di Sel, 259 di ‘Fare’, i tosiani, 215 delle Autonomie, 194 dell’M5S), 63 quelli del Pd (31 dei renziani, 17 della minoranza dem) a tutti gli altri articoli del ddl. In definitiva, il numero degli emendamenti in totale presentati, ‘solo’ in commissione Affari costituzionali, è arrivato alla cifra record di 513.450 mila, di cui il 99,3% (510.293) solo da parte della Lega Nord, ma Roberto Calderoli, padre del Porcellum e ideatore dello slogan “li seppelliremo sotto una montagna di carta”, già ne promette circa 6,5 milioni (dic) anche per l’Aula.

B) L’ENNESIMA ‘CALDEROLATA’ (513 MILA)

Infatti, in base a un articolo del Regolamento del Senato del 1971 che impone di stampare e distribuire una copia integrale di tutti gli emendamenti a una legge a ogni senatore, ha fatto andare in tilt la macchina del Senato. Facendo i conti, 321 copie, con una copia che consta di 100 tomi da mille pagine, per un peso di 2,5 tonnellate, solo per stamparle costerebbe 2.900 euro a fascicolo. I tomi da stampare diventerebbe 32.100, le pagine impiegate 32 milioni e 100 mila per un perso complessivo di 80.290 chili e un costo stratosferico di 930.900 euro. Una task force messa in piedi dal segretario generale del Senato, Elisabetta Serafin, ha lavorato tutta l’estate per affrontare l’emergenza: con un budget annuale per la stampa degli atti di 681 mila euro, già corrosi dai 50 mila emendamenti presentati da Calderoli e altri gruppi all’Italicum, 150 funzionari del Senato hanno lavorato per fornire un supporto informatico (una chiavetta Usb) a ogni senatore con tutti gli emendamenti e alla presidente Finocchiaro sarà riservata l’unica copia cartacea.
In ogni caso, il sottosegretario alle Riforme, Luciano Pizzetti (Pd), già fa sapere che, “quando la commissione dovrà formulare i pareri di conformità degli emendamenti, dovrà stabilire se così come sono espressi rendono il testo uscito dalla Camera sostanzialmente o formalmente ‘conforme’ a quello uscito dal Senato. Se c’è una conformità sostanziale, una serie di articoli non potranno essere emendati perché i testi sono sostanzialmente identici, mentre se la conformità è solo formale, allora l’emendamento si allarga ed estende assai”. Il che vuol dire che il testo diventa emendabile. Un modo per sfrondare un po’ la ‘mole’ degli emendamenti, molti dei quali, specie quelli leghisti, scritti con la carta carbone, o modifiche e correzioni solo formali (virgole, avverbi, etc.), ma di certo – come annunciava lo stesso Pizzetti a Repubblica – “se restano così tanti la soluzione sarà di andare subito in Aula”, bypassando la commissione, con il consenso della Finocchiaro, cui invece il governo vorrebbe affidare il compito di relatore per l’Aula del ddl Boschi. Trattative con Calderoli e la Lega per il ritiro degli emendamenti sono ancora in corso.

C) QUANTI VOTI SERVONO PER ‘PASSARE’ IN AULA?

Da notare il fatto che, in questo passaggio, non trattandosi del voto finale del procedimento di revisione costituzionale, quando – alla III e IV lettura – sono necessari i voti della maggioranza assoluta dell’assemblea (il cd. ‘quorum’ del ‘plenum’: 161 voti al Senato, 316 voti alla Camera), un provvedimento, ancorché se di rango costituzionale, può passare a maggioranza semplice dei voti (basta, cioè, un voto in più delle opposizioni, anche se bisogna sempre ricordare che, al Senato, l’astensione ‘in’ Aula vale come voto contrario, a differenza del regolamento Camera). Quindi, per la maggioranza, di fatto, un problema in meno… Invece, in terza e quarta lettura, servono 161 voti al Senato e 316 voti alla Camera, cioè la maggioranza assoluta dell’Aula e, per evitare il referendum, sarebbero necessari i 2/3 dei voti.
Per quanto riguarda la tanto discussa questione dei numeri, riassumendo movimenti e sommovimenti tra i partiti, che sono continui e spesso carsici, specie a palazzo Madama, è questa.
I senatori sono 321 (315 eletti e sei senatori a vita: due presidenti ‘emeriti’, Napolitano e Ciampi, e quattro senatori nominati per meriti: Piano, Rubbia, Cattaneo, Monti), la maggioranza assoluta dell’assemblea è fissata a 161 voti (tecnicamente si dice quorum del plenum). La maggioranza, che di solito, da quando c’è il governo Renzi, veleggia sui 170 voti (voti minimi presi: 163 – voti massimi presi: 175), ha sulla carta 183/185 voti. Infatti, vanno conteggiati i 112 senatori del Pd (113 con il presidente Grasso che, però, per prassi, non vota mai), 35 senatori di Ap (Ncd-Udc), 19 del gruppo Psi-Autonomie (dove siedono tutti 5 senatori a vita, tranne Monti, che sta nel Misto), 10 del neonato gruppo Ala (i verdiniani), cinque senatori su 30 del gruppo Misto che votano con il governo (oltre Monti, Della Vedova, Margiotta, ex Pd, Bondi e Repetti, ex FI), tre senatori su 11 del gruppo Gal che pure votano con il governo (Naccarato, Davico, D’Onghia): il totale è di 183 voti, così suddivisi: 173 i voti ‘certi’ (Pd+Ap+Autonomie+Misto+Gal) più 10 (Ala) incerti. Ma dalla maggioranza vanno scomputati, a stare alle dichiarazioni dell’estate, i 28 firmatari degli emendamenti sul Senato elettivo della minoranza del Pd, così suddivisi: tre in certi e 25 voti che la minoranza considera ‘sicuri’, mentre i renziani pensano di ridurli a dieci/quindici e puntano a recuperarne a loro favore o tra gli incerti tra gli otto e i dieci. Nelle opposizioni la situazione è: 44 senatori di FI, 10 Conservatori e Riformisti (fittiani), 12 Lega Nord, 36 M5S, 25 senatori su 30 del gruppo Misto (7 Sel, tre ‘tosiani’ di Fare, 14 ex grillini, un senatore ex Scelta civica), otto senatori su 11 di Gal (Ferrara, Ruvolo e Caridi, Grande Sud, Mauro G. e Mauro M., Popolari per l’Italia, De Pin e Pepe, ex M5S, Tremonti, ex Lega) ma dove la situazione è assai fluida (i due ex M5S stanno per far rinascere, al Senato, l’Idv ed entrare in maggioranza): in ogni caso, le opposizioni sono a quota 135.
Diverse le ipotesi, per ora tutte di scuola: 183-28 (ribelli dem) fa 158, 183-25 (ribelli dem quasi tutti) fa 168, 183-15 (ribelli assai asciugati) fa 168, 183-20 (15 ribelli e 5 tra centristi vari) fa 163, 183-25 (15/20 ribelli e 5/10 centristi vari) fa 158, 183-30 (25 ribelli e 5 centristi vari) fa 153 e via a scendere, a seconde delle possibili perdite della maggioranza.
La somma delle opposizioni, che parte da una base di 135 voti, arriva invece a 160 voti (161 il quorum) solo sommandosi a ben 25 ribelli dem e li supera, fino a quota 163-165 voti, solo con 25 ribelli Pd e 5 centristi o una ventina di ribelli dem e una decina di centristi. Dunque, molto difficile cadere, per il governo e la maggioranza, nonostante le fosche previsioni della vigilia, ma solo perché va ricordato che in questo passaggio parlamentare non servono i 161 voti!!! (ma nella III e IV lettura saranno obbligatori, per la riforma).

4) LA PROPOSTA DI MEDIAZIONE PD: “IL LISTINO”

L’idea di base è stata partorita dall’ex ministro Quagliariello (Ncd), recepita dalla presidente della I commissione Finocchiaro e adottata dai tecnici del ministro alle Riforme Boschi e di palazzo Chigi. Si tratta di un’elezione “semidiretta” dei senatori e cioè di “contaminare” il nuovo Senato con il voto popolare. L’idea appoggiata anche dalla Conferenza delle Regioni, il cui presidente Sergio Chiamparino, sarebbe – con i governatori Rossi e altri – fautore di un’altra proposta di mediazione ancora: ogni Regione sceglie il modo di elezione dei suoi senatori. Proposta rilanciata dal sottosegretario Pizzetti sul Corriere della Sera, con un’aggiunta, non di poco conto: “lasciare alle regioni la possibilità di far diventare senatore chi ha preso più preferenze” (quindi fuori dal ‘listino’).
Invece, l’ipotesi del ‘listino’ prevede un elenco di consiglieri regionali ‘speciali’ (scelti, dunque, dai partiti) che, una volta eletti e ‘se’ eletti, sempre all’interno dell’elezione che si tiene per rinnovare il consiglio regionale (elezione diretta, anche se ogni regione ha la sua legge elettorale), vanno a comporre, di diritto, il nuovo Senato, che resterebbe ancorato a una forma di elettività di secondo grado. I partiti, ovviamente, sceglierebbero i nomi del listino e cioè dei senatori che ogni partito manderebbe a Roma, sempre ‘se’ eletti. Per la minoranza la soluzione va bene se, però, nell’articolo 2, viene scritto, nero su bianco, che l’elezione dei futuri senatori è “diretta” e non “indiretta”, modificando dunque la ratio dell’art, mentre per il governo e la maggioranza l’art. 2 resta scritto così e poi, nell’art. 10 (che disciplina il procedimento legislativo) o nell’art. 35 (che disciplina i limiti agli emolumenti dei consiglieri regionali, e qui va ricordato che i futuri senatori non percepiranno alcuna indennità, come Renzi ha più volte detto) del ddl viene inserita la norma che introduce il ‘listino’ direttamente nel testo del ddl o rimandandone l’attuazione alla legge ordinaria.

5) I TEMPI TECNICI DELLA RIFORMA (IN TEORIA…)

Una revisione costituzionale comporta quattro letture (art. 138). Ma ogni lettura deve essere identica nelle due Camere, altrimenti il testo continua a fare la cd. ‘navetta’ in entrambe e la lettura resta sempre quella: in sostanza, ‘non’ avanzano le letture. Inoltre, dal 15 ottobre le Camere saranno impegnate a discutere la Legge di Stabilità (sessione di bilancio). Ecco perché Renzi vuole che il ddl Boschi venga licenziato entro e non oltre quella data.
Perché, nonostante l’attuale ‘navetta’ e il sicuro ritorno del testo dal Senato alla Camera siamo dentro la I lettura (!!!). L’ipotesi è: prima lettura definitiva entro dicembre 2015 con la Camera che accetta le modifiche del Senato (quelle del passaggio in corso). Poi, fatti i due passaggi delle prime due letture compiute dalle due Camere finalmente in copia conforme, devono passare i tre mesi di intervallo (o di ‘riflessione’) previsti dalla Cost (art. 138). Le ultime due letture, di solito, per una sorta di prassi costituzionale, quando si tratta di revisione della Costituzioni, sono veloci e identiche, una sorta di ‘prendere o lasciare’ che non modifica, precludendo le modifiche del testo approvato tra la I e la II lettura delle Camere (così dicono i regolamenti parlamentari delle Camere sui procedimenti di revisione costituzionale).
A quel punto, presumibilmente a marzo 2016, si chiude il processo di revisione costituzionale dentro il Parlamento, ma per indire il referendum – sicuro che si farà perché chiesto da Renzi, ma comunque anche perché non ci saranno mai i 2/3 dei voti in Parlamento – servono sei-sette mesi di tempi ‘tecnici’ per indirlo. Ergo, il referendum non si terrebbe prima di settembre-ottobre (naturalmente del 2016), ma più probabile in ottobre, anche se Renzi aveva più volte parlato di referendum entro giugno 2016.
A quel punto, spetterà al popolo italiano dire sì o no al ddl Boschi e al suo ambizioso tentativo di riformare la Costituzione, con due precedenti: nel 2001 la revisione costituzionale del Titolo V proposta dall’allora centrosinistra al governo venne approvata dai cittadini mentre, nel 2005, la Devolution proposta dal centrodestra allora al governo, venne bocciata. Nel primo caso la riforma costituzionale entrò in vigore, nel secondo no.


FONTI:
1) ddl Boschi (rubricato come Atto Senato 1429-B)
http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/45358.htm
2) dossier dell’ufficio servizio studi del Senato della Repubblica
http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00930268.pdf
3) diversi articoli di stampa usciti nel mese di agosto su vari quotidiani (Repubblica, Corsera, QN, etc.) e, in particolare, quelli di Andrea Fabozzi su il manifesto del 29 luglio/19 agosto.


NB. Questo articolo è stato scritto in forma originale per il blog di QN