Senato, è muro contro muro. Il piano di Renzi punta a spaccare i ribelli e far perdere pezzi all’area di Bersani

7 Settembre 2015 0 Di Ettore Maria Colombo

FESTA dell’Unità, esterno giorno

 

«Oggi dimostrerò a tutti, minoranza in testa, che il partito sta con me». Milano, domenica pomeriggio.

 

Matteo Renzi si confida con un paio di colleghi di partito poco prima del comizio. «Io vado avanti, la gente è con noi, non ci fermiamo. Siamo disposti a mediare, a trattare, ma non sull’art. 2. Quello non si tocca, e non perché lo dice Maria Elena (la Boschi, ndr) ma perché sennò la riforma non si fa più. Se poi, trattando trattando, credono di logorarmi e di farmi andare sotto, magari anche di riprendersi il Pd, in futuro, ‘la Ditta’ come la chiamano loro, si sbagliano di grosso. Avremo i numeri al Senato e il partito me lo tengo stretto, anzi lo voglio più forte».
Insomma, è tornato il Renzi formato battaglia. Con tanto di cravatta rossa (e, peraltro, double face) e citazioni dell’immaginario della sinistra che fu, dalla Resistenza alla lotta al debito dei Paesi poveri, passando per la Rai e la cultura e, soprattutto, per un Pd più forte, più solido e strutturato che a fine 2016 dovrà avere «10 mila sezioni, quelle che solo Guerini (ex dc, ndr.) chiama circoli». Il Renzi che, alla sua minoranza, che lo contesta «con coerenza, cioè sempre», come li sfotte, sa dire una sola cosa: «niente veti».

DEL RESTO, da Frascati, dove si trovava ieri, gli fa eco Luca Lotti: «Non accettiamo il ricatto di un gruppo di 26/28 (senatori, ndr) che ci vuole bloccare».

E il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, di solito silenzioso, se parla indica «la linea» (di Renzi). Il premier, ormai, ha un pacchetto di mischia collaudato cui vuole affidare sempre di più, in futuro, la cura del partito per evitare gli assalti della ex-Ditta che ritiene, più che pericolosi, «incessanti». Non a caso, ieri pomeriggio, a Milano, Renzi era circondato  solo da Boschi, Orfini, Guerini, Rosato e Bonaccini: perché solo di loro si fida. E del duo Finocchiaro-Zanda, che devono «sminare» il terreno del Senato prima che arrivi martedì.
Il guaio è che la «trattativa» con la minoranza dem non fa un passo in avanti. Persino la mediazione, corsa sul filo del rapporto (buono) tra Guerini e Bersani (che ieri ha smentito, via Facebook, di averla fatta) e tra Migliavacca e Zanda, non si smuove dal solito, eterno, punto. I renziani sono pronti a concedere l’elezione dei futuri senatori con apposito «listino» da scegliere in forma di elezione ‘diretta’ nei consigli regionali, ma senza toccare l’articolo 2 del ddl Boschi. I vietcong ribelli non ne vogliono sapere: parlano di «minestra riscaldata» (Gotor), «propaganda» (Mucchetti), «trattativa mai iniziata» (Corsini) e, per bocca di Fornaro, dicono: «l’elettività del Senato o si scrive nell’art. 2 o diciamo ‘no, grazie’».

«IL GUAIO – dice un renziano che ha ricevuto la confessione di un bersaniano di ferro come Nico Stumpo – è che né Bersani né Migliavacca li controllano più, ormai, a quelli.


Tra smanie di protagonismo, il fatto che sanno che nessuno li ricandiderà da nessuna parte, gente come Mineo, Mucchetti, Corsini, Gotor, non ha niente da perdere. A partire dal seggio». Non a caso, anche dalle parti di Zanda e della Finocchiaro, e cioè negli austeri e ancora semivuoti saloni di palazzo Madama, gli incontri e trattative parallele con la minoranza fervono, ma solo con i «dialoganti» (Vannino Chiti, oltre che lo stesso Migliavacca), non certo con i vietcong irriducibili.

E se i portavoce della minoranza dei 25 (allargabili a 28) dicono che i senatori firmatari degli emendamenti pro-Senato elettivo «sono compatti come un sol uomo», i renziani sono convinti che sono «prosciugabili almeno fino a 15». Del resto, solo così, annettendosi un po’ di ribelli, più i verdiniani di Ala (10), qualche assenza tattica dentro FI (almeno sei/sette) e due/tre ex grillini oggi in Gal che daranno vita ai «Moderati», la quota di sicurezza, per il governo, risale sopra il numero magico di 161 (maggioranza assoluta), almeno fino a 163/165 voti. Tecnicamente non servono, per far passare la riforma, basta prendere un voto in più delle opposizioni, ma se domani, all’assemblea di gruppo, fallirà ogni, ulteriore tentativo di mediazione, Renzi vorrà vorà una prova di forza muscolare.


NB. Questo articolo è stato pubblicato il 7 settembre a pagina 11 del Quotidiano Nazionale.