Che barba, che noia. Una prima analisi del congresso del Pd tra mancate risposte, scontro tra i candidanti, calo di partecipazione e calo di attenzione

30 Marzo 2017 0 Di Ettore Maria Colombo
Matteo Renzi parla alla kermesse di Rimini

Renzi a Rimini – Assemblea Nazionale Amministratori Locali del Pd (28/01/2017)

“Gratta gratta, sotto ogni russo c’è un tartaro” – (dal libro “Il grande Gioco”)

 

 

  1. Il congresso del Pd. ‘Che barba, che noia’…

Il congresso del Pd ha preso una piega assai noiosa. Sì, certo: Matteo Renzi tuona contro l’austerity dell’Unione Europea e i vincoli di bilancio che la Ue impone all’Italia. Sì, certo: Andrea Orlando chiede la distinzione tra i ruoli di segretario del Pd e candidato premier (oggi coincidenti, per Statuto: lo sono da quando nacque il Pd, nel lontano 2007).  Sì, certo: Michele Emiliano si strappa le vesti perché i suoi pugliesi devono accettare il gasdotto Tap nel loro Salento e tuona contro il partito “in mano ai banchieri e ai petrolieri”.
La verità, tuttavia, è che nessuno dei tre contendenti in gara ha una compiuta idea di Paese o nella migliore delle ipotesi non riesce a comunicarla agli iscritti e agli elettori del Pd. Poi, per carità, Renzi ha messo in campo il Lingotto e lì qualche idea di programma si è vista e si è ascoltata, tra una canzone di Claudio Baglioni (sic), una di Ermal Meta (sic) e un palco verde con il trolley del presunto giro per l’Italia che Renzi dovrebbe fare, ma che – tranne qualche tappa – ad oggi neppure è iniziato. Poi, per carità, Orlando terrà la sua conferenza programmatica l’8 aprile in quel di Napoli e lì, si spera, qualche scelta e investimento programmatico sarà fatto, vagliato, proposto, raccontato e, ovvio, lanciato. Poi, per carità, Emiliano schizza da una parte all’altra della Penisola, causa i suoi scarsi – scarsissimi – voti racimolati finora tra gli iscritti e parla, parla, e tuona, tuona, su tutto.

  1. Risposte e proposte sui programmi? Non pervenute

Però, insomma, l’impressione rimane. Cosa pensano i tre candidati al congresso del principale partito del Paese (al netto dei sondaggi, che vedono in testa i Cinque Stelle, e al netto della possibilità che il centrodestra si unisca davvero, tale è il Pd sia per voti assoluti presi alle Politiche del 2013 – guida Bersani – sia per i voti presi alle Europee 2014 – guida Renzi) dell’immigrazione e dei decreti sulla sicurezza di Minniti? Come pensano di rivitalizzare l’economia? Cosa credono che serva per avere altri – e nuovi e forti – margini di flessibilità nella trattativa con Bruxelles? Come vedono il reddito di cittadinanza avanzato dai grillini e, in parte, rilanciato persino da Silvio Berlusconi? Come – loro – imposterebbero il rapporto con gli Usa di Trump, con la Russia di Putin, con il Medio Oriente o la Libia o l’Africa, se diventassero candidati premier? Cosa intendono fare, visto che molto se ne discute, in merito alla nuova legge elettorale che il Parlamento non affronta, rinviandone la discussione di mese in mese, ma che la Corte costituzionale ci ha chiesto di affrontare e il Capo dello Stato chiede – pur se nel suo, ormai abitudinario, silenzio operoso – di varare?

 

  1. Le ‘baruffe chiozzotte’ sul calo dei votanti e gli iscritti

Non si sa. Per ora, le discussioni tra i tre contendenti e i colonnelli dei tre campioni si limitano a baruffe chiozziotte – come direbbe Goldoni – sulla partecipazione al voto, il calo degli iscritti, i voti presi. Renzi e i renziani sono molti contenti dell’affluenza degli iscritti al voto e, ovviamente, dei risultati chi gli arridono. Eppure, anche se la mozione Renzi viaggia sul 70% circa dei voti tra gli iscritti e la partecipazione è quasi al 60%, va tenuto conto del fatto che, alle primarie del 2013, quelle in cui Renzi sconfisse Cuperlo e Civati (poi uscito dal Pd), votarono circa 290 mila iscritti e poi, alle primarie nei gazebo, andarono circa 2 milioni e 800 mila persone. Ora, dato che i circoli del Pd sono 6300 e gli iscritti 420 mila (405 mila in realtà cui però vanno aggiunti 15 mila GD, i Giovani democratici), al ritmo attuale dovrebbero votare – proiettando i dati della prima settimana di votazioni, sempre e solo nei circoli – circa 186 mila iscritti su 420 mila, il che vuol dire almeno 100 mila elettori in meno rispetto al 2013.
Certo, la caduta degli iscritti al Pd è stata fermata, arginata: erano 379 mila nel 2014, 396 mila nel 2015, sono 405 mila oggi (merito del gran lavoro fatto dal vicesegretario dem, Lorenzo Guerini), ma il calo della partecipazione c’è e si sente. In circoli dem di Genova hanno votato in 7 (sette), nei circoli ‘operai’ di Piombino, Itachi e Mitsubishi della Toscana ha vinto Renzi, ma gli operai erano davvero pochi. E, in Emilia-Romagna, la (ex) mitica ‘Emilia rossa’ del Pci – scrive il 28 marzo Huffington Post – “gli iscritti nel 2013 erano più di 80mila e l’affluenza al congresso fu del 34%, che corrisponde in termini assoluti a 27mila votanti. Ora gli iscritti sono 47mila. Il 50% di partecipazione equivale all’80% dei votanti dell’altra volta”, un calo assai drastico. Il comitato emiliano di Orlando dichiara all’Ansa: “Nei 170 circoli scrutinati hanno partecipato al voto 1.852 iscritti in meno rispetto al 2013 e negli stessi 170 circoli dove si è votato gli iscritti sono passati da 20.252 a 12.856”. Ora, va fatto notare, en passant, che a Orlando e ai suoi la polemica sul calo degli iscritti non conviene affatto. Difficile, infatti, che Orlando riesca a prendere, alle primarie aperte, più del 30-33% che sta prendendo ora nei circoli, Diverso il caso di Emiliano, che sta andando malissimo, inchiodato a un 4-6% su base nazionale che rischia di fargli saltare la fase finale della competizione: infatti, per accedere alle primarie aperte serve aver preso, nei congressi di circolo, il 5% su base nazionale oppure il 15% in 5 regione, che è ‘tanta roba’. A lui sì che converrebbe fare la polemica sul calo dei votanti. Ma la vera polemica cui si apprestano a soffiare sul fuoco sia Emiliano sia – temiamo – anche Orlando, il più posato, misurato e, forse, responsabile, dei tre contendenti in palio, è un’altra e riguarda la partecipazione alle primarie aperte.

4.L’assurdo Statuto del Pd e i suoi tre ‘turni’ elettorali

Infatti, il 30 aprile, quando si svolgerà il secondo round, appunto, tutto o molto si giocherà sulla partecipazione. Prima però va spiegato che lo Statuto del Pd è tanto complesso e arzigogolato quanto assurdo. Di fatto, è un missile a tre stadi, una sorta di sistema elettorale a tre turni. Il ‘primo turno’ è quello del voto tra gli iscritti ora in corso. Votano, appunto, solo gli iscritti al Pd (fa fede la tessera del 2016 o l’iscrizione entro il 28 febbraio 2017, nel 2013 però ci si poteva iscrivere e votare il giorno stesso a ogni circolo) ma il voto, in pratica, ‘non’ vale nulla. Infatti, è il ‘secondo turno’, le primarie aperte, quelle in cui possono votare tutti i cittadini italiani, gli immigrati residenti e pure i 16enni, purché firmino la ‘Carta dei valori’ del Pd e versino 2 euro, quello che conta. Chi vince, vince, a prescindere dai voti presi tra gli iscritti, voti che, appunto, non valgon più nulla. Ma c’è un ma. Infatti, ove nessuno dei contendenti (tre, allo stato, forse due, se Emiliano venisse escluso dopo il primo giro tra gli iscritti) raccolga più del 50,1% dei votanti, diventa sovrana, per decidere chi farà il segretario del Pd, l’Assemblea nazionale del Pd. La quale viene composta da mille membri eletti nelle liste collegate – con un sistema maggioritario a turno unico – ai vari contendenti in lista. Qui, in Assemblea – che si terrà il 7 maggio, mentre le primarie aperte si terranno il 30 aprile ed entro il I aprile finiranno le votazioni nei circoli – può accadere di tutto. Poniamo che Renzi raccolga il 48,1% dei consensi. I delegati eletti con le mozioni Orlando (40,0%) ed Emiliano (10,9%) potrebbero convergere su uno dei due candidati che si sono opposti al vincitore con maggioranza relativa e battere Renzi. Senza dire della possibilità che dei delegati eletti con la mozione Renzi si ‘stacchino’ da essa e votino per un altro candidato. Ipotesi di scuola, certo, ma possibili. La vera partita, in ogni caso, è e resta un’altra. Ed è appunto la partecipazione al voto, ovvero l’affluenza alle primarie.

5. La posta in gioco: l’affluenza alle primarie aperte



Certo, il giorno scelto – il 30 aprile – che capita in un mega ‘ponte’ di festività, a cavallo tra 25 Aprile e Primo maggio, non aiuterà l’affluenza e lo scarso e poco produttivo dibattito sui temi più caldi, come si è detto prima, neppure. A lungo, al Nazareno, si è sperato in un’affluenza al voto di almeno 2 milioni e 200 mila/ 2 milioni e 500 mila persone, ora ci si accontenterebbe anche di sfiorare quota 2 milioni.  Il guaio è che la quota, o come si dice in gergo, l’asticella è assai bassa e, di certo, non farà fare bella figura al vincitore, chiunque esso sia (Renzi presumibilmente, ai dati di oggi).
Basta qualche raffronto con il passato per rendersene conto. Nel 2013 votarono, come si ricorderà, 2 milioni e 800 mila elettori (Renzi vinse con il 67% dei voti contro Cuperlo), ma in passato i risultati furono anche più brillanti: nel 2009, quando Bersani trionfò su Franceschini (e pure su Marino), votarono 3 milioni e 100 mila persone; nel 2007, alle ‘prime’ primarie, Veltroni vinse su Rosy Bindi ed Enrico Letta con il 75% su numeri monstre (3 milioni e 500 mila). Inoltre, alle primarie del 2004 – di coalizione, le prime primarie, ma in quel caso dell’Ulivo – Prodi stravinse la competizione portando a votare oltre 4 milioni di persone. Infine, nel 2012, quando Bersani – accettando la sfida di Renzi e coinvolgendo anche Vendola e Tabacci – indisse le primarie di coalizione in vista delle elezioni politiche 2013, l’allora segretario dem vinse sull’allora sindaco di Firenze con il 60% su una platea di partecipanti di 3 milioni e 100 mila persone al I turno e di 2 milioni e 800 mila al secondo.
Insomma, numeri che – paragonati con le stime attuali – suonano impietosi, in negativo. ‘Che fare’, dunque? Il Pd potrebbe cercare di animare la gara tra i tre contendenti – oltre a cercare di renderla il più corretta e onesta possibile – parlando, appunto, di programmi, idee, scelte, interessi – anche legittimi – dei vari campioni rispetto al popolo del centrosinistra e al Paese. Lo farà? Ne dubitiamo assai. In un bel libro – Il Grande Gioco (Adelphi) – che tratta della secolare rivalità anglo-russa sui remoti confini dell’Est, tra l’India, la Persia, l’Afghanistan, il Kasmir, il Tibet, la Cina, è scritto che, “gratta gratta, sotto ogni russo c’è un tartaro”, per spiegare l’indomabile e fiero animo russo, assetato di spazi e conquiste quanto di battaglie. Ecco, gratta gratta, sotto lo spirito di ogni dirigente dem c’è un ‘tartaro’: una coazione a ripetere che porta alla disintegrazione continua, al conflitto perenne, a una lotta interna sorda e fratricida. Un serio danno e un grande peccato agli occhi di chi, come chi scrive, ritiene – nonostante tutti i suoi difetti, errori, miserie – il Pd l’unico solo partito ‘democratico’ del Paese.


NB: Questo articolo è stato scritto in forma originale per questo blog il 26 marzo 2017