La voglia matta di votare. Il governo lancia l’election day ma suscita un vespaio di polemiche

La voglia matta di votare. Il governo lancia l’election day ma suscita un vespaio di polemiche

28 Maggio 2020 1 Di Ettore Maria Colombo

“Una scarpa prima e una dopo” (il voto), diceva Achille Lauro? Il governo impone l’Election day il 20 settembre ma suscita l’ira dei Governatori e delle opposizioni di centrodestra furibonde contro il colpo di mano del governo che accorpa in un’unica data amministrative, regionali e referendum costituzionale (il comitato del No protesta con Conte, i governatori con Mattarella)

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Un ‘patto di ferro’ tra Pd e M5S all’origine della scelta

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Pd e M5S

Il governo, e la maggioranza, non vogliono sentire ragioni. Si voterà, in tempi di Covid19 – il che vuol dire che si voterà in scuole ancora chiuse agli alunni ma aperte agli elettori, in locali perfettamente sanificati, con guanti e mascherina obbligatoria, e con distanziamento sociale rigidissimo da far rispettare agli elettori in coda ma anche a presidenti di seggio e scrutatori di seggio – il 20 e 21 settembre per le elezioni regionali, le amministrative, il referendum istituzionale in un unico election day così corposo che non si è mai verificato nella storia della Repubblica. Ma come è stato possibile arrivare a una tale scelta? Seguendo uno schema poco ‘logico’, ma molto ‘politico’.

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M5S

Una cosa a me”, 5Stelle: noi vogliamo il voto per il referendum costituzionale – hanno detto i 5Stelle al Pd – che è una ‘mia’ battaglia storica, politica e identitaria, che vogliamo propagandare e far vincere in modo schiacciante nello stesso giorno del voto per le regionali e le amministrative, grazie all’alta affluenza che trascinano, per essere sicuri di vincere la partita più importante (il referendum). Ma ci piace molto l’election day perché è un ‘doppio voto’: speriamo di ‘trascinare’ anche il voto sulla mia lista di partito, quella stellata, storicamente debole alle amministrative, al punto da non poter contare su un governatore che sia uno solo su due grandi città, Torino e Roma.

Il nuovo Statuto

E una cosa a te”, Pd: qui la speranza è di confermare i governatori uscenti (Puglia, Campania, Marche, ma soprattutto la Toscana, vera battaglia campale, dove invece il candidato è nuovo, Giani, e se la dovrà vedere con un centrodestra forte) e di strapparne almeno un’altro alla destra (Liguria) per impedire a chiunque – sia dentro il Pd che fuori – di dire che ‘il Pd ha perso le elezioni, ergo Zingaretti si deve dimettere, bisogna fare un nuovo congresso e nuove elezioni primarie’, una tentazione che già diversi – dal governatore emiliano Bonaccini ai renziani rimasti nel Pd – coltivano. 

Ma conta anche la possibilità di ‘spuntare le penne’ ad alcuni governatori ‘sceriffi’ che detesto da anni e che, prima che scoppiasse il coronavirus, ero sul punto di giubilare, cambiando cavallo. Come De Luca in Campania e Emiliano in Puglia (ma anche Ceriscioli nelle Marche), sperando che io riesca, nel frattempo, o a cambiarli in corsa (De Luca in Campania) o a farli perdere (Emiliano in Puglia, ma se possibile anche De Luca), secondo la vecchia, triste, logica del mors tua, vita mea.

Infine, una ‘cosa’ per entrambi (M5S e Pd): avendo davanti più tempo a disposizione, c’è la possibilità di sperimentare, in regioni ‘laboratorio’, come la Liguria (dove manca, però, il nome del candidato comune e, sperabilmente, unitario: il giornalista Ferruccio Sansa ha rinunciato, la sindacalista Cisl Annamaria Furlan non ci pensa neppure) e le Marche (il nome del candidato c’è, un rettore di università, ma manca l’accordo), la possibilità di rilanciare in modo robusto quel ‘patto’l’accordo organico tra Pd-centrosinistra e 5Stelle – che ha debuttato una volta sola, finora, a livello locale, e cioè a quelle regionali in Umbria del novembre 2019 e che, a dirla tutta, si sono rivelate per quello che erano: un’immane catastrofe (gli elettorali di M5S e Pd-centrosinistra ‘non’ si sommano).

 

Lo schema di gioco è a tre punte: centrosinistra-M5S Fico-Conte

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Il premier Conte

Ma, pervicacemente, i ‘teorici’ dell’alleanza tra dem e pentastellati – presenti in entrambi i due partiti e pure molto autorevoli (Zingaretti e Franceschini nel Pd, Fico nel M5S, Di Maio pensa altro) non ne vogliono sapere di rinunciare all’assioma politicista di base: il ‘nuovo’ centrosinistra ‘deve’, per forza di cose, nascere dall’unità di intenti – e, di conseguenza, dalla prova elettorale – dei due partiti alle elezioni regionali e amministrative, in vista di – future, futuribili, per carità, ipotetiche – elezioni politiche in cui il ‘patto’ tra i due partiti verrebbe dichiarato apertamente e, ovviamente, corroborato dalla presenza di un partito centrista, moderato e cattolico, guidato da Giuseppe Conte.

Un partito che dovrebbe svolgere la stessa funzione ancillare che aveva il Partito dei Contadini che si alleava con i partiti bolscevichi nei Paesi satelliti a socialismo reale nel secondo dopoguerra: portare una spruzzata di (finto) moderatismo e centrismo per compensare un centrosinistra ‘largo’ che vada dai moderati ex azzurri agli ulivisti prodiani fino al Pd, inteso come ‘corpaccione’ zingarettian-franceschiniano, e a LeU, o meglio a cioè che ne resta (Mdp di Speranza e poco altro).

 

Zitti zitti, quatti quatti… Il vero vertice a palazzo Chigi

non è stato sugli ‘assistenti civici’, ma sull’election day

camera dei deputati

Camera dei deputati

E così, mentre tutti gli occhi erano rivolti alla querelle e/o bagatella sugli ‘assistenti civici’, che faceva tanto impazzire i social, e mentre tutt’Europa attendeva, col fiato sospeso, l’annuncio della presidente della commissione Ue, Ursula Von der Layen, del piano da 700 miliardi (Recovery Found) che dovrebbe (e potrebbe davvero, stavolta) risollevare le sorti dell’Europa post-Covid19, nelle segrete stanze di palazzo Chigi si decideva la ‘linea’ da tenere sulla questione dell’election day, a dispetto dell’opposizione e del fuoco di fila concentrico di opposizioni, governatori, comitato del No.

Un classico argomento, le elezioni, che interesse molto – anzi, moltissimo – alla classe politica di ogni ordine e grado e ben poco ai cittadini:  il ‘quando’ si vota (la data delle elezioni, detto election day, ovvero il mantra grillino che bisogna risparmiare “i soldi dei contribuenti”), il ‘chi’ vota, la platea degli elettori (e qui va enumerato se sono di una regione, di un comune o tutti i cittadini, come nel caso del referendum costituzionale in cui possono votare tutti), il ‘come’ si vota (i sistemi elettorali).

La riunione che fu ‘galeotta’ e che ha deciso l’election day, cioè l’accorpamento di tre generi molto diversi di elezioni in un solo giorno e con la difficoltà, per l’elettore, di trovarsi ben tre schede diverse, si è tenuta, senza che se ne sia accorto quasi nessuno, l’altro ieri, martedì, a palazzo Chigi.

Officianti al rito sono stati il premier, Giuseppe Conte, il ministro all’Interno, Luciana Lamorgese (‘occhio’ del Colle su molti temi e dossier, tecnici e non), il capodelegazione del Pd al governo, Dario Franceschini, quello dei 5Stelle, Alfonso Bonafede (ma, dentro l’M5S, chi ancora ‘comanda’ e decide è il ministro Luigi Di Maio) e il ministro agli Affari regionali, il dem Francesco Boccia.

Infatti, sono stati il capodelegazione del Pd al governo, Franceschini, e il ‘vero’ capodelegazione dell’M5S al governo, il ministro degli Esteri Di Maio (il teorico capodelegazione M5S – e guardasigilli – Alfonso Bonafede lo è per sbaglio) che si sono guardati negli occhi e, alla fine, hanno trovato un ‘giusto’ compromesso. Vagliato e vidimato dal ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, ‘onesto sensale’ che, in questi come in molti altri casi, fa le veci del Colle più alto e anche da controllore.  

 

Le ‘motivazioni’ addotte del governo per votare il 20 settembre

Se ne parlerebbe, in questo caso, a settembre, non prima

Se ne parlerebbe, in questo caso, a settembre, non prima

Il risultato è un ‘papocchio’ che il Parlamento, oggi, deve solo recepire e votare nel testo finale, ‘blindato’, come è stato già annunciato, in aula di palazzo Montecitorio, ieri, dove il dl elettorale è all’esame della Camera dei Deputati. Ieri, scatenando le ire funeste delle opposizioni, il relatore di maggioranza sul dl ‘elettorale’, Bilotti (M5s), ha proposto e fatto passare un emendamento, prima firmataria un’altra deputata pentastellata, Macina (M5s), al dl elettorale stesso che chiedeva, ed ha ottenuto, l’accorpamento di elezioni regionali, amministrative e del referendum nell’election day con data unica, e insindacabile, fissata al 20/21 settembre, come richiesto dal governo, tramite il sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento, Achille Variati (Pd), già da giorni in commissione. 

Le motivazioni, o meglio ‘scuse’, di base sono tre: 1) l’election day fa risparmiare, in termini di costi; 2) il Cts (comitato tecnico-scientifico) del governo ha detto che non si può aspettare arrivi ottobre, per votare, dato che il coronavirus potrebbe registrare, proprio allora, una drammatica impennata e dunque una recrudescenza di contagi che potrebbe spingere il governo a dichiarare un lockdown ter; 3) il governo si è trovato in mezzo, come tra due fuochi, tra i governatori che volevano votare il prima possibile (prima a fine luglio, poi il 12-13 settembre, non un giorno oltre, ora protestano ancora) e le opposizioni di centrodestra che hanno chiesto, invece, di votare il più tardi possibile, cioè a partire dal 27 settembre in poi e che continuano a insistere per una data più avanti nel tempo.  Insomma, il governo – mediando tra le diverse istanze – non avrebbe fatto che da ‘onesto sensale’. 

 

Ceccanti: “Altro che golpe. Il 20 settembre è la data migliore”

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Stefano Ceccanti, deputato e costituzionalista del Pd

Presi come siamo stati, tra due fuochi – ragionava con un collega il deputato, e costituzionalista, Stefano Ceccanti, vera ‘manina’ ombra di tutto quello che succede, sul fronte della tecnica elettorale, dentro il Parlamento, sul lato dem – “il Governo si è trovato in mezzo tra i governatori che volevano votare prima possibile, addirittura a luglio, o al limite nei primi 15 di giorni settembre e il centrodestra nazionale che voleva andare, come data, più in là possibile” – spiegava Ceccanti – “non potevamo non tenere conto di esigenze così diverse e ci siamo limitati a mediare tra esse”.

“Inoltre – continua Ceccanti –  davvero non capisco innanzitutto l’ostinazione di Forza Italia che, in commissione Affari costituzionali, continuava, con Francesco Paolo Sisto, a chiedere una data molto più in avanti, ma che è a rischio estremo di ‘rebound’ della pandemia da coronarivirus, come ci ha spiegato il Comitato tecnico-scientifico mentre capisco l’ostilità dei governatori all’eelction day il 20 settembre: temono che deflagri la situazione e le tensioni sociali e vogliono incassare al più presto i ‘dividendi’ della loro popolarità e del consenso mediatico accumulato in questi mesi.

Il professore prestato alla Politica, Ceccanti, continuava la sua analisi con il collega di partito: “Capisco bene, invece, il ‘gioco’ delle opposizioni. Fratelli d’Italia minaccia e farà l’ostruzionismo, per non far approvare il decreto, perché così il partito della Meloni cresce in popolarità e consensi. La Lega tace perché Salvini ha paura che, se si vota con troppo anticipo o troppo ritardo, rischia di offrire una – inaspettata – volata al suo competitor più temibile dentro la Lega, Luca Zaia, mentre credo che. rispetto all’atteggiamento di Forza Italia, faccia aggio il peso politico e personale dei molti deputati (Baldelli) e senatori (Cangini) azzurri che hanno sposato la battaglia del comitato del No al referendum“.  Molti azzurri, in effetti, tra i pochissimi partiti che sostengono le ragioni del No, sono contrari all’accorpamento con le regionali e le amministrative perchè è evidente che, facendo l’election day, va più gente a votare ed è realistico che voti ‘sì’ alla riforma che taglia il numero dei parlamentari e non che voti ‘no’, più facile in una votazione unica, come pure sarebbe stato più facile tenere bassa l’affluenza e lasciare al No una chanche di vittoria.  

Insomma, Ceccanti ritiene che – al solito, da riformista doc – “il meglio è nemico del bene” e assicura ai suoi interlocutori che, “stante l’interlocuzione con il governo e il Comitato tecnico-scientifico, meglio di così non si poteva fare: l’election day fal 20/21 settembre è un compromesso”.

Infine, Ceccanti fa notare un particolare tecnico non da poco, e cioè che è stato “più che dimezzato” il numero di firme richiesto e obbligatorio dalla legge per presentare in una lista elettorale, giusto per prevenire chi – non solo l’opposizione, ma anche il radicale Riccardo Magi – tuonava da giorni contro “l’impossibilità pratica e fisica di “riuscire a raccogliere firme in vacanza davanti la sdraio”.

“In conclusione – dice Ceccanti – con l’emendamento Bilotti (M5s), e il sì formulato dalla relatrice Macina (M5s) la finestra elettorale è rimasta identica a quella prevista nel testo originario, ossia 15 settembre-15 dicembre. In questa finestra spetta al Governo decidere: l’esecutivo ha preannunciato il suo orientamento politico a decidere per la prima settimana utile, 20 e 21 settembre (primo turno amministrative, regionali, referendum) e di tenere il 4 e 5 ottobre i ballottaggi per le amministrative”.

 

Nasce così un election day che non piace proprio a nessuno…

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Il Capo dello Stato Mattarella

Ma l’election day (elezioni regionali, amministrative e referendum istituzionale tutte insieme) post-Covid19, in buona sostanza, non piace a nessuno. Non piace ai governatori, che protestano furibondi per la data e hanno persino scritto una lettera aperta al Capo dello Stato, dichiarandosi amareggiati per quello che ritengono “un colpo di mano” del governo perpretrato ai loro drammi.

Non piace alle opposizioni di centrodestra, che minacciano e metteranno in atto (ma non tutte: di sicuro FdI, forse pure FI, la Lega, curiosamente, tace) un durissimo ostruzionismo parlamentare. 

Non ci resta che la protesta, al fine di impedire di convertire in legge il ‘decreto elettorale’ che il governo ha sfornato e che, oggi, si inizierà a votare dentro l’aula della Camera dei Deputati, quindi faremo un’opposizione durissima, in aula, con tanto di ostruzionismo, cercando di far scadere il dl e gli altri pure” – annuncia il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida, “perchè non è mai successo, nella storia d’Italia, che un decreto che fissa la data delle elezioni (non la legge elettorale, attenzione, che più volte è stata decisa a colpi di votazioni di maggioranza, ndr.) non venisse concordato tra maggioranza e opposizione, è davvero una vergogna inaccettabile”. 

Dal canto suo, invece, sul fronte delle opposizioni, la Lega nicchia. Il problema è che il governatore Zaia vuole votare il prima possibile e farsi riconfermare da un plebiscito, un voto che sarà ‘bulgaro’, da parte degli elettori veeti per poi lanciarsi sulla scena pubblica nazionale e forse scalzare Salvii, mentre invece Salvini vuole tenerlo ‘basso’ se non addirittura tagliargli le unghie. E così la Lega non protesta contro l’election day: vorrebbe votare anzi ben dopo il 20 settembre, non prima del 26/09.

 

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Giusi Bartolozzi, deputata di Forza Italia

Infine c’è Forza Italia che, con l’onorevole palermitana Giusy Bartolozzi, opta per una tattica emendativa contro la scelta del governo e della maggioranza: “Noi non faremo ostruzionismo, come FdI, e non so cosa farà la Lega. Siamo una forza politica responsabile e attenta. L’election day è sbagliato e la data, in ogni caso, è sbagliata perché collocata troppo in anticipo rispetto l’autunno, ma quello che proprio non va è l’accorpamento di regionali e amministrative con il referendum. In questo modo si sfalsa l’affluenza che fa la differenza tra la vittoria del Sì o del No”

Non piace, l’election day, ovviamente, infatti, neanche al comitato per il ‘No’ al referendum costituzionale che aveva chiesto di tenere una consultazione così delicata e importante in una data ad hoc per evitare di sfalsarne il risultato e che ora cercherà di premiere su Conte per ottenere, almeno, uno slittamento della data di celebrazione del referendum e fissarlo, come ultima istanza, al secondo turno delle comunali, dove il numero degli elettori è, per forza di cose, assai più basso.

 

Il decreto legge ‘elettorale’ e il ‘timbro’ (scontato) del Parlamento

 

Camera dei Deputati

L’aula del Senato fotografata dalla tribuna stampa

La decisione sull’election day  presa dal governo, dopo un vertice di maggioranza ‘informale’, ha dunque prodotto un decreto legge cui il Parlamento – o, meglio, la maggioranza di governo, con l’emendamento a prima firma Bilotti (M5S) – ha messo il timbro dell’ufficialità, il ‘visto si stampi’ che, tra oggi e domani (dipenderà molto da quanto sarà forte l’ostruzionismo minacciato da FdI), la Camera dei Deputati darà a un testo che poi andrà dritto per dritto, oltre che blindato, al Senato.

E così, il prossimo 20/21 settembre 2020, dopo quasi un anno di ‘silenzio’ elettorale (le ultimi elezioni pre-Covid si sono tenute in Emilia-Romagna il 26 gennaio, trionfante Stefano Bonaccini, Pd, contro la macchina della Lega di Salvini), ci sarà un’abbuffata, una vera scorpacciata, di elezioni.

 

Tre schede per tre elezioni, tutte e tre diverse tra loro…

Schede_elettorali

Schede elettorali aperte

Gli italiani si troveranno, dunque, a votare – con il Covid19 ancora in corso o comunque non definitivamente alle nostre spalle e code alle cabine elettorali che saranno infinite – e in un giorno solo, dunque, su ben tre schede elettorali e per tre tipologie di elezioni diverse tra loro. Inoltre, cil voto del  20/09/20 arriverà dopo una campagna elettorale che inizierà sulle spiagge, dopo metà agosto, per chi potrà andarci, e che si concluderà col cader delle prime foglie, a metà settembre.

 

Sei regioni al voto per un totale di 18 milioni di abitanti.

Fuoco e fiamme dei governatori per anticipare il voto…

Votazioni ad ottobre

Votazioni

Si voterà, dunque, nello stesso giorno, inanzittutto, in sei regioni a statuto ordinario (Veneto, Liguria, Marche, Toscana, Campania, Puglia), regioni che dovevano andare al voto entro fine maggio e che, quindi, nei seguenti tre mesi, sono andati avanti in regime di – davvero eccezionale e mai vista –  prorogatio a causa dell’emergenza coronavirus che ha fatto slittare le elezioni previste a maggio.

ma anche elezioni regionali che i governatori in carica volevano che si svolgessero il più presto possibile: in prima battuta, avevano proposto, come data, la fine di luglio, il 26/07, e poi, in queste settimane, hanno rilanciato proponendo, come data, un’altra e molto più ravvicinata, il 13 settembre.

Hanno fatto, e stanno ancora facendo, in queste ore, fuoco e fiamme, i governatori di ben cinque regioni sulle sei al voto anche grazie al supporto, tecnico e politico, del presidente della Conferenza Stato-Regioni, il dem Stefano Bonaccini, che si è schierato con tutto il suo peso con i suoi ‘colleghi’ (di centrodestra – Zaia e Toti – come di centrosinistra – Ceriscioli, Emiliano e De Luca, manca solo la Toscana all’appello) per cercare di strappare al governo una data del voto ben più ravvicinata di quella ormai decisa dal governo e che sta per essere validata dal Parlamento.

Chiaro il loro obiettivo: sfruttare l’onda ‘corta’ del favor delle loro popolazioni che si sono sentiti protetti e aiutati, in questi mesi di pandemia globale, dai ‘loro’ governatori. Alcuni, come De Luca, diventati delle vere star mondiali; altri, come Zaia, sono ormai lanciati verso future leadership nel campo del centrodestra; altri ancora, come Emiliano e Toti, sono alla ricerca di un secondo mandato fino a ieri non facile né scontato, data la debolezza delle loro coalizioni rispettive.

Invece, in altre due regioni (Toscana e Marche) la sfida è ancora e a lungo resterà tutta aperta: i due governatori uscenti (Rossi e Ceriscioli, entrambi del Pd) non si ripresentano alla carica per un altro mandato. Sia le candidature che gli schieramenti delle due coalizioni di centrosinistra e di centrodestra sono alla ricerca di candidati che si giocano, insieme al loro futuro, pure quello dei loro leader politici di riferimento (Salvini nella Lega, Zingaretti nel Pd). Infatti, da una vittoria come da una sconfitta dei candidati in pectore delle due coalizioni – i 5Stelle sono, di fatto, fuori gioco in ognuna delle sei competizioni regionali – possono dipendere anche molti equilibri politici nazionali.

In totale, in ogni caso, nelle sei regioni sono 18 milioni gli abitanti coinvolti, mentre va registrata la ‘bellezza’ di sei sistemi elettorali ognuno diverso dall’altro. E questo perché ogni regione può, nel nostro Paese, darsi la legge elettorale che più le aggrada, al punto che in Toscana, unica in Italia, c’è pure il doppio turno, cioè la possibilità di andare a un turno di ballottaggio, come per i sindaci…

 

Mille comuni al voto per sei milioni di abitanti e i ballottaggi

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Voto

Poi, si voterà in quasi mille comuni (tra cui diverse decine di importanti capoluoghi di provincia), per un totale di sei milioni di cittadini coinvolti alle prossime amministrative che, come le regionali, dovevano tenersi a maggio prima, e a giugno poi, ma che sono state rinviate causa coronavirus.

Elezioni comunali che sono regolate, invece, da un’unica legge, quella per i sindaci, che – varata nel 1993 – è la sola legge elettorale italiana rimasta identica a sé stessa da allora: prevede, nei comuni sopra i 15 mila abitanti, l’eventuale doppio turno, o ballottaggio, tra i due candidati più votati al primo turno (ballottaggio che si tiene, per legge, 15 giorni dopo), e, nei comuni sotto i 15 mila abitanti, il turno secco, nel senso che il candidato sindaco che si classifica primo poi governa.

Da parte dei sindaci uscenti, come dei loro competitor, non si registrano invece particolari invettive né acrimonie, rispetto alla data del voto decisa, con il decreto ‘elettorale’, dal governo. Sindaci e loro sfidanti si giocano la rielezione sulla base di cosa hanno – o non hanno – fatto nei cinque anni della loro amministrazione, più che su come hanno gestito l’emergenza del coronavirus. Ma non va dimenticato che molti sindaci hanno scritto, indignati, al governo per un tema, scottante, che con l’election day non c’entra nulla, ma c’entra molto con la manovra economica: i sindaci dell’Anci, specie quelli delle grandi città, lamentano di “essere stati lasciati soli” sia in termini di (mancate) risorse stanziate dal governo ai comuni sia in termini di regole e previsioni sull’attuale pandemia.

In ogni caso, se non è la prima volta che il primo turno delle comunali viene ‘abbinato’ con elezioni regionali (si chiama, appunto, election day e si fa per risparmiare sui costi della macchina elettorale che il Viminale, a ogni elezione, mette in campo), non era mai successo che delle elezioni, locali o politiche che siano, venissero abbinate con lo svolgimento di un referendum, il quale, di solito, abrogativo o confermativo che sia, si prende e si ritaglia una data a sé, sia che abbisogni di quorum per essere dichiarato valido (abrogativo) sia che il quorum non serva (referendum confermativo).

 

Un referendum costituzionale in cui votano ‘tutti’ i cittadini…

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Il logo del Referendum Costituzionale

Infine, si voterà – sorpresa‼! Bella per i fautori del Sì, cioè praticamente tutti i partiti italiani, ma con i 5Stelle in testa, pessima per i fautori del No che oggi andranno da Conte per protestare e, inutilmente, avanzare le loro ragioni – per il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari.

Cittadini coinvolti: tutti i 52 milioni di elettori italiani costituenti il ‘corpo elettorale’, cioè gli aventi diritto al voto. Infatti, a un referendum – in questo caso si chiama ‘confermativo’, vuol dire che si tiene per confermare, o meno, una riforma costituzionale, quindi non abbisogna di quorum (50,1% degli aventi diritto al voto) per essere giudicato valido, a differenza del referendum ‘abrogativo’ – possono votare, volendo, tutti i cittadini del nostro Paese. Anche per questo è un voto ‘politico’ e importante perchè indica, a seconda di come si schierano i partiti sul quesito referendario, gli ‘orientamenti’ politici dell’elettorato e registra, specie quando non sono in vista elezioni politiche, le tendenze verso questo o quel partito degli elettori. 

Inoltre, si tratta, in questo caso, di un referendum importante e, da molti punti di vista, storico. Infatti, si dà il caso che il numero dei deputati e dei senatori della Repubblica è fissato, per Costituzione, dal 1948 per la Camera e, dal 1958, per il Senato e che, da allora, mai è variato.

La protesta del ‘comitato del No’ oggi arriva fino a casa di Conte

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Il fronte del NO

I promotori del Comitato del No al referendum voluto dal M5S – approvato con legge costituzionale votata, a maggioranza assoluta, con il voto finale, e cioè in via definitiva, a settembre del 2019, dopo  le obbligatorie quattro ‘letture’ effettuate dalle Camere – oggi protesteranno direttamente con il premier Conte, andando a trovarlo a palazzo Chigi. Con l’obiettivo massimo (ormai impraticabile) di ottenere una data ad hoc – cioè distinta dalle altre due competizioni dell’election day (regionali e comunali) – per il referendum e con l’obiettivo minimo di ottenere almeno l’accorpamento del referendum al secondo turno, o ballottaggio, delle elezioni comunali previste 15 giorni dopo. 

Il Comitato del No chiederà comunque conto, al governo, di una scelta – quella dell’election day – che non solo loro giudicano “improvvida e sbagliata” perché mischia le mele (le elezioni regionali) e le pere (le elezioni comunali) con … gli ananas (il referendum costituzionale). Infatti, se è vero che l’accorpamento si può fare, perché nessuna legge lo vieta e perché il referendum confermativo non abbisogna di quorum per essere valido (in caso di referendum abrogativo non si sarebbe potuto fare, l’accorpamento, perchè l’obbligatorietà del quorum avrebbe sfalsato la competizione elettorale), è anche vero che ‘mischiare’ competizioni locali con un referendum costituzionale, e un referendum così importante, sfalsa, oggettivamente, la competizione. In pratica, e di fatto, il ‘triplo voto’ induce gli elettori dei tanti partiti che hanno sostenuto le ragioni del Sì a confermare, in modo meccanico, il loro voto ai partiti che si presentano alle elezioni locali e di precludere a chi sostiene le ragioni del ‘No’ di giocarsi il referendum in una competizione singola e dal risultato aperto.

Una riforma dalla portata notevole, il referendum costituzionale. ‘Targata’ M5S (e, all’origine, Grillo e Casaleggio), che la presentano come una riforma storica, di quelle volute dalla ‘gggente’ – prevede, in buona sostanza, che i parlamentari dai quasi mille che sono oggi (945: 630 deputati e 315 senatori) subiscano una dura cura dimagrante per diventare 600 (400 deputati e duecento senatori).

 

La ‘non’ riforma dei 5Stelle: il ‘taglio’ dei parlamentari ‘e basta’

Di Maio e il taglio dei parlamentari

Di Maio e il taglio dei parlamentari

Una ‘non’ riforma, in realtà, visto che taglia solo il numero degli ‘scranni’ o poltrone in modo del tutto demagogico, oltre che ‘lineare’, e che creerà enormi problemi di funzionamento delle Camere. Come maggiore conseguenza, avrà solo quella di vedere il Parlamento sempre più in balia delle decisioni di pochi (capigruppo e segretari dei partiti, alti funzionari delle Camere e dei Palazzi, lobbysti), ma senza più alcuna possibilità di migliorare il funzionamento e le decisioni delle stesse.

Infatti, a differenza della riforma costituzionale avanzata dal governo Renzi – proposta nel 2015 e poi bocciata, sempre via referendum confermativo, nel 2016 – l’attuale ‘non’ riforma dei 5Stelle non intacca e neppure scalfisce il vero problema dei lavori parlamentari: la famosa ‘navetta’ tra Camera e Senato – fino a quando una legge non esce in copia carbone, perfettamente identica, in entrambe – che produce le leggi fotocopia e l’ingolfamento dei lavori parlamentari in un ping-pong potenzialmente infinito e il cattivo funzionamento del lavoro nelle commissioni che, con meno onorevoli, verranno svuotate o disertate, perdendo pezzi di potere di controllo su governo e sull’aula.

Ma se questo è il problema ‘tecnico’ del referendum confermativo, resta invece, grande come una casa, il problema ‘politico’ soggiacente: tre competizioni elettorali così diverse tra loro, ‘che c’azzeccano’? – direbbe il contadino dal cervello fino – visto che vengono mischiate, come di solito ‘mai’ si fa, le mele (le regionali) con le pere (le comunali) e gli ananas (il referendum costituzionale)? Non c’azzeccano nulla, appunto, ma sono state ‘mischiare’ per meri e biechi calcoli politicisti. 

 


 

NB: la parte iniziale, di questo articolo è pubblicata sul sito di notizie Tiscali.it il 28 maggio 2020