La linea del Piave. Letta deve vincere le amministrative di ottobre o il peso delle correnti (a partire da ‘Agorà’) lo schiaccerà

La linea del Piave. Letta deve vincere le amministrative di ottobre o il peso delle correnti (a partire da ‘Agorà’) lo schiaccerà

18 Aprile 2021 1 Di Ettore Maria Colombo

La linea del Piave. Letta deve vincere le amministrative di ottobre o il peso delle correnti (a partire da ‘Agorà’) tornerà. Il Pd lancia le primarie “a metà”. “Decidono le città”, dice il segretario, ma a Roma si faranno e Calenda si chiama fuori

primarie pd

Il Pd lancia le primarie “a metà”

 

NB: questo articolo è stato pubblicato, quasi per intero, sul sito di notizie Tiscali.it il 18 aprile 2021

Letta sa bene che è a ottobre che si gioca l’osso del collo

Elezioni

Le elezioni amministrative saranno un primo test, anche per la costruzione delle alleanze. Siamo all’inizio di un percorso con l’obiettivo di arrivare, per le elezioni politiche, a un nuovo centro sinistra che dialoghi col M5S” è il mantra ripetuto anche ieri dal segretario del Pd, Enrico Letta (“Alleanza col M5s? e questo sarebbe il Nuovo Pd?” Chiosa, caustico, il candidato alle comunali Carlo Calenda) mentre per il governo il segretario del Pd propone un “Patto per la ricostruzione” come quello che diede vita al governo Ciampi nel lontano 1993 (leggi alla voce: rapporto con Salvini-Lega e pure FI).

Il segretario del Pd, Enrico Letta, magari avrà pure tanti difetti, ma non difetta di onestà intellettuale. Sa bene, cioè, che alle prossime amministrative, si gioca l’osso del collo. Se la sua segreteria e il neu kurs che, proprio modello Bismarck alla Germania di metà Ottocento, ha voluto imprimere al suo partito, avrà modo e possibilità di prendere piede, consolidarsi e proiettarsi, saldo e sicuro, verso il ‘sol dell’avvenire’ (elezioni del nuovo Capo dello Stato, nel 2022, elezioni politiche, teoricamente nel 2023, primarie cui candidarsi per legittimarsi ‘veramente’ a segretario del Pd), ha l’obbligo di vincere, e non solo di pareggiare, le prossime elezioni comunali di metà ottobre. Insomma, se D’Alema si dimise da premier per le Regionali perse nell’anno 2000 e Walter Veltroni si dimise per aver perso le elezioni regionali in Sardegna (dicasi, la sola Sardegna) nel 2009, Letta deve vincere le amministrative d’autunno. E dato che si vota in sei grandi città (Torino, Milano, Trieste, Bologna, Roma, Napoli) – più una miriade di altri mille e trecento comuni – ‘vincere’ vuol dire che, al massimo, Letta si può permettere il lusso di perdere una – forse due – città, non di più. Di certo non Roma e Bologna, per capirsi. Ma neppure Milano e neppure Napoli. Sotto questa linea del Piave, sarebbe una debacle. Perdere Roma sarebbe una vera catastrofe, una piaga d’Egitto biblica, ma anche perdere Bologna sarebbe un terremoto. Perdere Torino e Napoli sarebbe molto doloroso e, si capisce, perdere Milano non è contemplato. Le correnti – che Letta finge di snobbare, ma che quasi come sempre dettano legge, nel Pd – lo farebbero a fette. E, forse, temendo che Letta le rivolti come calzini, le svuoti e le renda inoffensive, le correnti – tutte, per capirsi: non solo gli ex renziani di Base riformista, ma pure la sinistra interna – elevano altrettanti voti al Cielo che la profezia nera si avveri.

Letta alla prima ‘vera’ Assemblea nazionale del Pd tra wi-fi che ‘ballano’, carneadi che parlano, ferri da stiro in cucina

enrico letta 1

Enrico Letta

Per ora, tuttavia, Letta è saldo, sulla tolda di comando. E ieri, ha preso pienamente le redini del suo ‘nuovo Pd’ nel corso dell’Assemblea nazionale rilanciando l’alleanza con l’M5s e, ovviamente, lo strumento delle primarie. Rigorosamente svolta via Facebook (ormai questa delle assemblee virtuali è una mania, ma la moda dei giornalisti e delegati tutti collegati da remoto è una iattura, e quando si tornerà alle assemblee in presenza ne riguadagnerà la libertà d’informazione e pure la democrazia interne dei partiti, ridotte a brandelli), si è trattato della prima ‘vera’ Assemblea del Pd. Infatti, quella dell’elezione di Letta era stata, va detto, ‘finta’ (zero dibattito, votazione ‘bulgara’).

Oltre 5 ore di dibattito, 57 interventi, qualche parlamentare, nessun ‘big’ (con la sola eccezione di Andrea Orlando). Alla prima, vera, riunione dell’Assemblea del Pd dopo l’elezione di Letta, protagonisti sono i delegati, i territori, i Circoli. Non più relegati al ruolo di comparse, sono loro gli unici a spartirsi i cinque minuti cinque concessi dalla presidenza per parlare ‘da remoto’. “E’ la prima Assemblea che seguo dopo 8 anni, ho provato la più bella sensazione che potessi avere” si pavoneggia il segretario, alla fine, ma non è stato un format venuto fuori a caso, ma un segnale forte che Letta ha voluto dare per la costruzione di quel partito dotato di “intelligenza collettiva” che renderà il Pd ‘vincente’ in futuro. Del resto, al primo punto dell’odg dell’Assemblea c’erano i risultati del vademecum spedito a fine marzo a 3 mila circoli e a cui hanno risposto quasi 40 mila iscritti (gli iscritti al Pd, in teoria, sono 420 mila: in realtà, non è stato un ‘successone’, ma un ‘successino’).

Brando Benifei

Brando Benifei – Capogruppo Pd al Parlamento UE

Ma – nella nuova weltanschauung lettiana (‘viva la Base-abbasso i Vertici-tutto il Potere agli Iscritti) – vigono regole ferree e i primi a pagarne le conseguenze sono ‘capi&capetti’. Ergo, via dalla scaletta degli interventi i capigruppo. Solo il capo delegazione a Bruxelles Brando Benifei – fortunello questo Benifei, unico maschio rimasto, tra i capigruppo che Letta ha imposto al partito – ha preso la parola, mentre sono stati silenziati i ministri, i presidenti di commissione, governatori, i capi corrente, i sindaci (quello di Reggio, Falcomatà, e di Palermo, Orlando, le sole eccezioni), i ‘big’.

caterina biti

Caterina Biti

Largo ai militanti, dunque, che hanno risposto al vademecum e che si sono collegati da salotti, cucine, tinelli di casa… Con Caterina Biti, vice-presidente dei senatori dem, che – in un impeto da desperate housewives – ha postato la foto del suo ferro da stiro piazzato davanti al computer acceso sui lavori mentre, tra wi-fi a volte traballanti e una gran fatica a seguire i lavori, nessun delegato ha sprecato i 5 minuti di celebrità che, warholianamente, Letta ha voluto dare loro.

Letta vuole (e deve) vincere le comunali. Convoca le primarie, ma a Roma Calenda rompe: lui correrà comunque

Carlo Calenda

Calenda va avanti come un treno

Poi, però, finalmente, la parola passa alla Politica. “Non si vincono le elezioni con ottime e costose squadre di comunicazione, magari americane (ogni riferimento a Renzi che pagò profumatamente i guru Usa di Obama per poi perdere, e male, le ultime politiche è d’obbligo) – ammonisce il segretarioma con 100 mila militanti. Noi vinceremo le elezioni solo se scatterà l’impegno di 100 mila persone, militanti, protagonisti, testimoni, che su tutti i territori riusciranno a convincere gli italiani. Se in due anni faremo il lavoro vinceremo le elezioni”.

Buoni propositi, e buone intenzioni, di cui, però, come si sa, è lastricata la strada dell’inferno. Letta disegna la prospettiva in cui si muove con lo sguardo rivolto proprio all’appuntamento elettorale delle comunali: “Non siamo un partito che decide i candidati da Roma, siamo un partito che crede nella forza dei territori, del rispetto per le scelte dei territori. Stiamo dando aiuto ai territori, con la possibilità di usare lo strumento delle primarie, che a me piace, per rendere più forte la scelta”. Traduzione: primarie on-line già convocate, a Roma, per il 20 giugno (tranne gli anziani, che voteranno in seggi fisici), mentre in altre città si vedrà di volta in volta (cioè non è detto si faranno).

Il comunicato con cui il Pd di Roma annuncia che convocherà, per martedì prossimo, 20 aprile, il ‘tavolo’ di coalizione per la corsa al Campidoglio e proporrà il 20 giugno come data per le primarie è freddo e anodino, ma il mare promette burrasca. “Il futuro di Roma è il futuro dell’Italia – dichiarano, patriottici, i segretari di Roma e Lazio Andrea Casu e Bruno Astorree le prossime elezioni amministrative sono un appuntamento fondamentale”. L’ira del già candidato e già in corsa, da mesi, leader di Azione, Carlo Calenda, è funesta come quella del prode Achille sul cadavere del povero Ettore: “Contrordine compagni e amici. Le primarie non sono più intoccabili ma diventano duttili. Si possono fare e/o non fare, oppure si possono svolgere dove conviene mantenere il potere e non altrove. In sostanza, sono primarie ‘a scomparsa’ mentre le città, i loro problemi e i bisogni dei cittadini possono passare in secondo piano”. Morale della favola (calendiana): “Io non ci sto. Sono solo un trucco per far ritirare la Raggi e convincere Zingaretti a candidarsi con un patto di ferro tra Pd e M5s. Sono primarie finte. Ci vediamo al primo turno”. Il Pd, cioè, parte già zoppo, a Roma: a meno che non scenda in campo Zingaretti (e, ormai, pare proprio di no, che non lo farà), il Pd rischia – con Gualtieri o chi, per esso, vincerà le primarie ‘dei 7 nani’, come sono già state ribattezzate – di arrivare terzo al primo turno (dietro il candidato del centrodestra e dietro la Raggi, magari anche per colpa di Calenda), costretto a far migrare i suoi voti sull’odiata sindaca al ballottaggio e diventare residuale, nella Capitale. Per il Pd, e per Letta, sarebbe la catastrofe totale, cosmica ed universale. 

Le ‘mezze primarie’ dem. I sindaci dem contro Letta

Roma palazzo del bufalo 03 largo del nazareno

Largo del Nazareno, ove ha sede il PD

L’ordine di scuderia del Nazareno resta però quello di stringere con i 5Stelle alleanze e dappertutto per ‘testare’, in vista delle future politiche, la ‘nuova’ alleanza. Solo che vari pezzi di classe dirigente locale resistono e allora ecco che ‘tornano buone’ pure le primarie per scardinarli e imporre la linea. Letta rilancia lo strumento delle primarie definendole “la via maestra”, per il Pd, ma anche “uno strumento flessibile, che non va imposto”. Una mezza retromarcia, dato che appena una settimana fa aveva detto, invece, che si sarebbero fatte ‘ovunque’ e stabilito la data di metà giugno.

Al di là del fatto che sarebbero primarie solo on-line (tranne per gli anziani), dai territori è arrivata una mezza rivolta che, nell’incontro di tre giorni fa, con i principali sindaci dem, si è fatta palpabile.  “Sarà ogni città a decidere” il mantra dei sindaci (Nardella di Frenze, Gori di Bergamo, Merola di Bologna, Decaro di Bari) che nasconde ben due problemi: le (giuste) aspirazioni dei territori a voler decidere di testa propria, a dispetto di ‘Roma’, e anche le ‘incrostazioni’ dei ceti e gruppi di potere e di interessi locali dentro il ‘corpaccione’ del Pd che ostacolano i ‘buoni propositi’ del segretario.

Bologna. E alla fine sbuca e si impone la renziana Conti

Andrea Gnassi

Andrea Gnassi

A Bologna – ma anche a Rimini, dove il sindaco, Andrea Gnassi, va verso la fine del suo secondo mandato e non si può ricandidare – il Pd è diviso tra chi le vuole fare e chi no, le primarie. A Bologna è spaccato tra assessori uscenti rampanti e vogliosi che aspirano, a nome loro e delle loro correnti, al trono di candidati (quasi) sicuri della vittoria. Virginio Merola è alla fine del secondo mandato: aveva puntato tutto su un suo assessore, Lepore, ma gli è andata male: contestato dagli ex renziani, che gliene hanno contrapposto un altro, di assessore, Aitini, la corsa di Lepore si è presto interrotta. Non se usciva, e da mesi, ma poi Renzi ha fatto irruzione nella contesa. La ‘mossa del cavallo’, che ha spiazzato e mandato ai matti il povero Letta, è stato di candidare la ‘sua’ (nel senso di Iv) sindaca (di un paesino alle porte della città, San Lazzaro), Isabella Conti. La Conti, tipa tosta, popolare e amata anche a sinistra, si è rimboccata le maniche, ha cercato e ottenuto consensi trasversali e ora punta sulle primarie, nonostante un pezzo di nomenklatura dem (donne comprese, tranne Elisabetta Gualmini, donna di classe e di stile, che l’ha difesa) la avversi per gelosie, rancori, dissapori antichi. Alla fine, dovrebbe farcela lei. Sarebbe la sola candidata donna di Pd e dintorni alle amministrative. Letta potrà dirle di no? Diremmo, a naso, di no. Dovrà trangugiare il boccone amaro e appoggiarla. 

Il Pd rischia pure a Bologna? Un po’ sì. I 5stelle, pur propensi all’alleanza coi dem, contano poco (conta di più la sinistra radicale, che c’è), ma alla fine, se il nome sarà la Conti, si andrà sul velluto. Il centrodestra ancora non ha un nome da lanciare. Non si sa ancora se la scelta cadrà su un politico (l’ex ministro dell’Udc Gianluca Galletti) o su un civico (Bonelli o Battistini i nomi più gettonati).

Torino è molto a rischio. Sicuri che invece Milano è sicura?

Stefano Lorusso

Stefano Lorusso

Guai grossi a Torino. L’ex ministro Boccia è planato in città per cercare di mettere pace tra le varie fazioni in lotta, ma non ci è affatto riuscito. Il Pd cittadino punta sul capogruppo in consiglio comunale, Stefano Lorusso, sgraditissimo – nell’ottica dell’alleanza con i 5stelle – dalla sindaca uscente Chiara Appendino, ma benvoluto dalla nomenklatura locale dem (la linea Valentini-Chiamparino-Violante). Gli altri nomi che girano sono quelli del rettore del Politecnico, Guido Saracco (che però si è tirato fuori per ragioni personali), dell’ex gloria della Juventus, Claudio Marchisio, e di altri sportivi meglio assortiti come l’ex ct della nazionale di volley, Mauro Berruto, da poco chiamato da Letta nella sua stessa segreteria. Con il centrosinistra in alto mare e l’M5s in caduta libera il rischio è consegnare la città alla destra: il civico Paolo Damilano, voluto da Salvini, è in giro per la città da mesi e per ora non teme rivali. Senza dire del fatto che Iv-Azione-Moderati (in loco guidati dal deputato Giacomo Portas) puntano a una candidatura civica e alternativa.

Beppe Sala

Beppe Sala

A Milano, in teoria, non ci sono dubbi: Beppe Sala – che si è riscoperto l’anima ‘green’ e ora vuole ‘rifondare’ i Verdi italiani in salsa europea – si ricandida e dovrebbe farcela, persino in surplace, sul centrodestra, ma il problema è che se si allea con l’M5s (e la sinistra) perde Calenda, Iv e i centristi (e viceversa). Se il centrodestra azzecca il candidato (si parla di Gabriele Albertini o di Maurizio Lupi, due evergreen ma anche due moderati) la gara potrebbe non diventare più tanto scontata.

Solo a Trieste il Pd dovrebbe andare sul velluto: il lettiano (ex segretario della prima associazione politico-culturale fondata da Letta, agli albori della sua discesa in politica, ‘Trecentosessanta’) Francesco Russo sta bene a tutti, da Iv fino ai 5Stelle, e non dovrebbe avere problemi a spuntarla.

Lo gnommero di Napoli. Si faranno davvero le primarie?

Roberto Fico

Roberto Fico

Più complicata la situazione a Napoli. La città in cui ‘l’accurduni’ tra Pd e M5s dovrebbe avere, da mesi, il volto rassicurante del presidente della Camera, Roberto Fico, è paralizzata dai veti incrociati tra il sindaco uscente, Luigi De Magistris (che si candiderà ma alle regionali in Calabria…) e il governatore, Vincenzo De Luca, che si oppone a ogni accordo con i 5Stelle, ma anche dalle perenni indecisioni dello stesso Fico che un giorno vuole candidarsi e un giorno vuole restare alla Camera…

Gennaro Migliore

Gennaro Migliore

Per non dire del ‘ritorno in campo’ dell’ex viceré di Napoli e Campania, Antonio Bassolino, che si vuole candidare a tutti i costi e dell’auto-candidatura del giovane Gennaro Migliore: l’ex rifondarolo, oggi renziano, ancora dotato di stima e consensi, in città, vuole le primarie ed è pronto a sfidare ogni sorta di candidato Pd (che, a dirla tutta, di candidati buoni non ne ha) in una città che, quando e se si parla di primarie, la parola si traduce con brogli, polemiche, ricorsi, figuracce mondiali per il Pd…. Potrebbe spuntarla, su tutti, la candidatura dell’ex ministro all’Università Gaetano Manfredi (area Bettini), ma sarebbe di minore appeal e Letta dovrebbe imporla bypassando le primarie. Per il centrodestra, il magistrato Catello Maresca è in campagna elettorale da mesi e gode di ottima reputazione in molti ambienti, persino a sinistra. Potrebbe farcela lui, alle elezioni, quelle ‘vere’. 

“Questa è Roma!”. I guai dei dem e del M5s nella Capitale

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“Questa è Roma!”. I guai dei dem e del M5s nella Capitale

Ma veniamo al nodo dei nodi, quella Capitale che dovrebbe fare da ‘apripista’ all’alleanza M5S-Pd, ma dove proprio l’alleanza rischia di naufragare. Due i motivi. La candidatura, già lanciata e in corsa, di Carlo Calenda, che non intende ritirarsi dalla corsa e lo scoglio di Virginia Raggi. ‘Non convinta’ dalla moral suasion di Giuseppe Conte, che aveva assicurato a Letta che l’avrebbe fatta ritirare, la sindaca va avanti per la sua strada con la ‘benedizione’ del ‘vecchio’ Movimento (Casaleggio-Di Battista) come del ‘nuovo’ (Di Maio-Patuanelli), e pure del guru di entrambi, Beppe Grillo: si candiderà e aspira ad andare al ballottaggio e a chiederli lei, a quel punto, i voti della sinistra.

Zingaretti Nicola

Nicola Zingaretti

L’unico nome in grado di poter scompaginare le carte sarebbe quello di Nicola Zingaretti. L’ex segretario dem e ancora oggi governatore della Regione, dove ha fatto entrare i 5Stelle ‘anti-Raggi’ della Taverna in giunta, non intende però lanciarsi, almeno a oggi. Sia per non cozzare contro gli ‘amici’ pentastellati sia per non mollare, anzitempo, anche la regione. Inoltre, mai Zingaretti – per un paradosso intrinseco nella sua storia politica di dirigente dem che ‘crede’ così tanto nelle primarie da volerle fare e averle fatte per guidare il Pd, ma di non volerle mai fare per correre a Roma e Lazio – correrà a quelle primarie che il segretario Letta ha ‘promesso’ ai dem locali. I quali – capitanati da Claudio Mancini, ‘ombra’ sul territorio di Bettini, fresco fondatore di una nuova corrente politica dentro il Pd (Agorà), e da Umberto Marroni – vogliono imporre a Letta una candidatura che Letta, dall’inizio, poco digerisce. Quella dell’ex ministro al Mef Roberto Gualtieri: ex dalemiano, oggi bettiniano, che scalpita da mesi per candidarsi, anche se tutti i sondaggi lo danno sicuro perdente. Ma Mancini e Marroni, dioscuri dell’ex Pci romano e del Pd bettiniano, sono convinti che “Gualtieri, intellettuale popolare alle primarie, ma soprattutto alle elezioni, vincerà contro tutti, Raggi in testa”. Il guaio è che, se loro perdono la scommessa, perdono solo Roma. Se invece la candidatura nella Capitale d’Italia la perde Letta perde la testa o, pardon, la segreteria e il suo futuro politico.

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Guido Bertolaso

La unica nota positiva, per Letta, è che il centrodestra non riesce, da mesi, a trovare uno straccio di candidato sindaco a Roma. Si è molto parlato della discesa in campo di Guido Bertolaso, ex capo della Protezione civile, il nome su cui punta Matteo Salvini (e anche Silvio Berlusconi) ma Giorgia Meloni punta i piedi e vuole sceglierlo lei il candidato nella Capitale. Prima ha proposto Andrea Abodi, presidente del Credito sportivo, nome carneade che ha lasciato più che ‘freddi’ i due alleati. Paradossalmente, però, il ‘non’ candidato Bertolaso è in testa a tutti i sondaggi e, in un ballottaggio, la spunterebbe contro la Raggi e contro Gualtieri. Ergo, se cambiasse idea, potrebbe spuntarla. 

La partita che gioca il Pd e, soprattutto, quella di Letta

Enrico Letta

Enrico Letta

La verità è, come si diceva all’inizio, che il Pd rischia davvero molto, alle prossime amministrative, a partire da Letta. Di fronte a una vera e propria debacle (per capirci: perdere sia Roma che Bologna, sia Torino che Napoli, e ‘tenere’ solo Milano), ma anche di fronte a un pesante insuccesso (vincere Milano, Bologna e Napoli, ma perdere Torino e, soprattutto, perdere Roma), la segreteria di Letta potrebbe traballare fino al punto di cadere o, comunque, porterebbe Letta – ‘nominato’ segretario dall’Assemblea nazionale e non eletto, proprio lui, nel modo canonico dei leader dem, le primarie – a diventare un ‘re Travicello’, prigioniero delle correnti interne che tanto dice, oggi, di detestare.

Perché, di fatto, le correnti ne svuoterebbero la tolda di comando facendone un leader dimidiato. Letta, uomo di diverse stagioni, ma non per tutte le stagioni, a quel punto, probabilmente, mollerebbe lui, per primo, tornandosene ai suoi amati studenti (e studi) di Science Po a Parigi, e il Pd si avvierebbe a una truculenta resa di conti interna sotto forma di congresso anticipato. Ma è ovvio che, prima di portare a casa il ‘risultato’, tanta acqua deve ancora passare sotto i ponti.

Prima di registrare un siffatto catastrofico scenario, insomma, le amministrative sono e restano una partita ancora tutta da giocare. Letta lo sa come lo sanno i suoi, per ora silenti, avversari interni.

Le correnti sono sempre lì. E ora c’è pure ‘Agorà’ di Bettini…

goffredo bettini

Goffredo Bettini

Certo è che, nel Pd, le correnti sempre proliferano e come la gramigna crescono di numero e numeri. Comprese quelle nuove nuove, fresche di nascita (battesimo in pompa magna lo scorso 14 aprile, presto nuovo ‘lancio’, Letta presente/parlante), come ‘Agorà’ (nome nobile, antico, che ricorda la piazza della polis di Pericle, Temistocle, etc), ispirazione politica insieme “cristiana e socialista” (sic – Claudio Martelli ha randellato di brutto sull’usurpazione del nome ‘socialista’, i cattolici invece tacciono, tanto l’aggettivo ‘cristiano’, ormai, non si nega più a nessuno). E’ la corrente fondata da Goffredo Bettini ma cui aderisce e per la quale simpatizza il fior fiore della gauche interna ai dem (le aree Orlando e Cuperlo) e pure esterna (LeU di Speranza, SI di Fratoianni) dei suoi cervelloni più gauchistes (da Mario Tronti a Nadia Urbinati). Solo che, alla fine, gira che ti rigira, le ‘truppe’ sul territorio qualcuno deve pur portarle, in una corrente, e dunque ecco che si rimboccano le maniche l’ex deputato Claudio Mancini (fortissimo, a Roma, vero inventore della candidatura di Gualtieri), il suo alter ego Umberto Marroni, più i dioscuri storici di Bettini, Roberto Morrasut e Michele Meta.

Bettini – ex ideologo di Zingaretti (resigned), ex ideologo di Conte e del Contismo (resigned), ex inventore del ‘modello Roma’ (e, dunque, dei sindaci Rutelli, Veltroni, come pure di Ignazio Marino, resigned: nessuno se lo ricorda più, resigned pure dalla memoria dei romani, che di solito è lunga, ma sempre una sua creatura era) – oggi si sente ‘equivicino’ a Massimo D’Alema come a Nicola Zingaretti e, nel contempo, pure a Giuseppe Conte. Bettini, insomma, si colloca in quello (stretto) spazio politico che sta tra LeU e M5s, con il Pd nel ‘giusto mezzo’ (cosa c’entri, con questi Numi tutelati, il Pd ‘riformista’ non è dato sapere, ma vabbé, amen): vuole parlare “agli ultimi, agli esclusi, al popolo” (mancano solo proletari e ‘lumpen-proletariat’ marxianamente intesi, nell’elenco), lasciando ‘ad altri’ l’occupazione di spazi centristi e moderati che, a Bettini, fanno abbastanza schifo. In teoria, è l’opposto della ‘linea Letta’, come  l’elogio del proporzionale contro la vocazione maggioritaria, come il rapporto (ossessivo, ai limiti della psicanalisi) con Conte e i 5Stelle, per non dire della teoria del ‘gomblotto’ che avrebbe fatto cadere il Conte bis quando invece Letta, almeno a parole, rivendica in pieno l’agenda Draghi e il sostegno leale del Pd al governo dell’attuale premier. 

Mattarella Draghi

Il presidente Mattarella e Mario Draghi

Il ‘gomblotto’ non viene declinato così banalmente, da Bettini, ma con un giro di parole: “Il governo Conte è caduto per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli e dunque inaffidabile”. Parole furbe, ma sempre nei dintorni del ‘compluttuni’ di matrice ‘giudo-pluto-massonico’ stiamo. ‘Compluttuni’ che che avrebbe dimissionato il ‘progressista’ Conte per mettere al governo, e alla guida dell’Italia, perfidi e lascivi, i ‘giudo-pluto’ guidati, ovviamente, dal tecnocrate Draghi. Una ‘teoria’ che presuppone un ruolo, nel ‘gomblotto’, decisivo del Capo dello Stato, cioè Mattarella: come Letta possa avallare tali sospetti e ombre sulla figura di uno di cui rivendica il filo diretto resta uno dei tanti ‘misteri gloriosi’ del suo Pd.