Parità di genere? No, parità di bilancino… La sconfitta delle donne candidate a sindaco e il ‘ripescaggio’ come vice…

Parità di genere? No, parità di bilancino… La sconfitta delle donne candidate a sindaco e il ‘ripescaggio’ come vice…

20 Ottobre 2021 1 Di Ettore Maria Colombo

Parità di genere? No, parità di bilancino… La sconfitta delle donne candidate a sindaco e il ‘ripescaggio’ a assessore e vice nelle nomine. “Dateme na’ donna”: Le necessità dei partiti e le sconvenienze della ‘questione femminile’ tra numeri e dati delle ultime elezioni comunali. Inoltre, un articolo sull’astensionismo degli elettori dal voto, tra amministrative e politiche

Parità di genere? No, parità di bilancino… La sconfitta delle donne candidate a sindaco e il ‘ripescaggio’ nelle nomine a assessore e vice…

Parità di genere? No, parità di bilancino… La sconfitta delle donne candidate a sindaco e il ‘ripescaggio’ nelle nomine a assessore e vice…

Nb. Entrambi gli articoli sono stati pubblicati il 20 ottobre 2021. Il primo articolo è stato pubblicato su “Luce!”, portale Internet del gruppo Quotidiano Nazionale, che si occupa di inclusione, coesione e diversità sociale. Il secondo è uscito sul Quotidiano nazionale 

 

“Brutto spettacolo. Solo uomini sul palco”. La protesta delle donne Pd sotto il palco di Roma

Patrizia Prestipino

Patrizia Prestipino

Nella felicità della vittoria, è stata veramente una nota stonata, che mi ha un po’ indignato, vedere, sul palco di piazza Santi Apostoli (dove lunedì sera il neo-sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ha festeggiato l’elezione insieme al segretario del Pd, Enrico Letta, al governatore della Regione, Nicola Zingaretti, ai principali dirigenti del Pd romano, etc.) tutto quel blu (il colore dei maschi per definizione, ndr.) e zero rosa (il colore delle donne, ndr.)”. Parla così, sfogandosi con una collega, a Montecitorio, la deputata dem di Roma, Patrizia Prestipino, una delle più forti democrat che la piazza della sinistra romana conosca e riconosca. La Prestipino, per capirci, ha piazzato, come elette, a queste elezioni, 20 consiglieri municipali, un consigliere comunale e la presidente del IX Municipio, Titti Di Salvo – un passato da sindacalista ‘rossa’ della Cgil.

Titti Di Salvo

Titti Di Salvo

Una donna tosta e combattiva, la Prestipino, di quelle che, senza di lei, le elezioni, a Roma, non le vinci, e che, con le altre donne che hanno sostenuto la campagna elettorale e, dunque, la vittoria dem, ha dovuto assistere a una ‘festa di soli uomini’, sul palco della vittoria del sindaco di Roma. Una scenetta, appunto, poco bella, a vedersi, e proprio nel Pd. Un partito che della promozione della ‘differenza di genere’ si fa un vanto, praticamente dalla sua nascita, ma che ha candidato soltanto ‘uomini’, in tutte le città.

Partivano già ‘svantaggiate’, le donne, stavolta: i numeri del Viminale sulle candidate sindache

Un dossier del Viminale, già alla vigilia del voto, segnalava che su 15 candidati sindaco dei Comuni capoluogo solo 25 erano donne

Un dossier del Viminale, già alla vigilia del voto, segnalava che su 15 candidati sindaco dei Comuni capoluogo solo 25 erano donne

Non una sorpresa, lo scarsissimo numero di donne sindaco, tenuto conto dei numeri ‘rosa’ di questa tornata elettorale. Un dossier del Viminale, già alla vigilia del voto, segnalava che su 15 candidati sindaco dei Comuni capoluogo solo 25 erano donne: 17,2% contro l’82% di uomini. Morale, che il giorno non fosse buono in fatto di presenza delle donne nelle sfide a queste ultime elezioni, lo si vedeva, appunto, già, dal mattino.

Il risultato è che sono solo otto le sindache elette, al primo turno, e tutte e solo in comuni piccoli e medi. Si va dal Molise (dove si passa da 16 a 21 prime cittadine), ma passa al primo turno ad Altopascio (Lucca) anche Sara D’Ambrosio, sindaca riconfermata. Ad Assisi vince subito Stefania Proietti (sindaca simbolo del nuovo Ulivo: unisce Pd-M5s-sinistra-cattolici) e ad Arzano (Napoli) Vincenza Aruta. In città ancora più piccole ma popolose vanno al secondo turno la sindaca uscente Cecilia Francese (liste civiche) e a Melito, Dominique Pellecchia.

Di certo le amministrative di domenica e lunedì scorso non hanno contribuito a fare crescere la percentuale di sindache che l’Anci nel 2021 ha calcolato stare intorno al 15% (molto meglio va dentro l’Ali, l’Associazione delle Autonomie locali guidato dal sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, dove la parità di genere, nelle cariche interne, è regola ferrea). 

Ouidad Bakkali

Ouidad Bakkali

Ha invece funzionato la norma della doppia preferenza di genere. In particolare, nelle liste del Pd a Torino le più votate sono risultate quattro donne. A Ravenna boom di voti per Ouidad Bakkali, originaria di Agadir, che ha avuto un successo personale, risultando la più votata (lista Pd). A Bologna su sei quartieri, cinque hanno eletto donne alla guida. Bene a Roma Sabina Anfossi, più votata, al consiglio comunale della nuova assemblea.

Giuseppina Facco

Giuseppina Facco

Tra le curiosità ‘rosa’, c’è il caso di Santo Stefano Roero (1.407 abitanti in provincia di Cuneo) dove ha vinto con il 63% di consensi Giuseppina Facco, medico, contro Mario Bertero che ha avuto il 36%. Nel Comune piemontese commissariato, a fronteggiarsi erano però due squadre tutte al femminile presentate da entrambi i due sfidanti…

Alessandra Clemente

Alessandra Clemente

Poche, inesistenti e sostanzialmente ineleggibili… Triste il bilancio delle donne candidate a sindaco

Certo è che partivano con molte speranze, le donne candidate a sindaco, ma poi hanno portato a casa lo scarso risultato delle candidate del M5Stelle come pure di Alessandra Clemente, che correva a Napoli per DeMa, e di qualche candidata di liste molto minori.

Alla fine, dopo il secondo turno, si può trarne, dunque, un primo bilancio. Su 8 città chiave al voto, laddove c’era una donna candidata sindaco, nessuna è arrivata al ballottaggio. È un quadro a tinte sempre più fosche, quello della partecipazione delle donne in politica. Roma, Torino, Milano, Napoli, Salerno, Benevento, Rimini e Trieste: qui, a parte qualche eccezione in centri più piccoli, nessuna è arrivata al secondo turno . Numeri alla mano, è la conseguenza scontata di un quadro di partenza scoraggiante: su 145 candidati sindaco nei 17 Comuni capoluogo delle Regioni a statuto ordinario al voto figuravano solo 25 donne: il 17,2% rispetto all’82,8% degli uomini (120 in tutto).

sebben che siamo donne

“Sebben che siamo donne paura non abbiamo” lo slogan delle femministe negli anni Settanta

La più forte mediaticamente, per la sua visibilità, era Virginia Raggi, ma con il suo 19% e spiccioli è arrivata addirittura quarta, dietro Roberto Gualtieri, Enrico Michetti e Carlo Calenda. Ma per un’altra pentastellata, Layla Pavone a Milano, è andata ben peggio: appena 2,7% i voti raccolti. Male è andata anche per Valentina Sganga, fedelissima della sindaca uscente Chiara Appendino a Torino: 9% e addio sogni di gloria. Appena meglio, sempre tra le fila del Movimento, è andata per Alessandra Richetti a Trieste: per lei, però, solo il 3,4%. A Napoli Alessandra Clemente, fedelissima dell’uscente Luigi de Magistris,  dopo il tonfo del’ex pm ha incassato solo il 5,7%. Sempre al Sud, Rosetta De Stasio, aspirante sindaca di Benevento per il centrodestra, si è fermata al 5%, però dovendo fare anche i conti con una corazzata come quella di Clemente Mastella, ex sindaco rieletto, mentre ha sfiorato il 9% Gloria Lisi (M5S), in corsa per guidare il Comune di Rimini.

Un riequilibrio delle quote di genere, analizzando il dettagliato rapporto redatto dal ministero dell’Interno alla vigilia delle elezioni amministrative, si era verificato (ma solo teoricamente) nella corsa ai Consigli comunali, dove la presenza di candidate donne (grazie alla doppia preferenza) è normata da una regola precisa: un obbligo, insomma. Di conseguenza, su 13.281 candidati totali alle assemblee dei medesimi 17 Comuni capoluogo: le donne in corsa erano 5.956 (44,9%), mentre gli uomini 7.325 (55,1%).

Ma anche su questo fronte, la partecipazione (in forze) delle donne alla vita politica è rimasta una chimera: perché, anche considerando il quadro più positivo della corsa alle assemblee cittadine, molte candidature femminili spesso si sono rivelate sono solo di facciata, giust’appunto per rispettare la norma della doppia preferenza di genere. Proprio per questo, anche nei Consigli comunali, nonostante l’apparente riequilibrio, le elette sono state molte meno rispetto alle proporzioni di genere delle candidature.

Il dato di fondo? Poche, praticamente inesistenti, quasi mai nella rosa degli eleggibili (salvo alcune rarissime eccezioni). La sconfitta delle aspiranti sindache era già scritta. E non c’entrano le preferenze degli elettori: non solo le donne erano destinate a perdere quasi ovunque, ma neppure sono mai state ammesse al tavolo della partita.

A decretarlo sono i numeri: se si guardano i 6 capoluoghi di Regione che sono andati al voto, erano appena 18 su 73 candidati, che diventavano appena 30 su 162 se consideriamo anche gli altri 14 capoluoghi di Provincia. Non è una sorpresa, se mai una conferma. Ma la notizia è che neanche in questa tornata la partecipazione del 51% della popolazione, che è donna, è aumentata, anzi se possibile il quadro è peggiorato.

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Nilde Jotti (Pci), ex presidente della Camera, e Tina Anselmi (ex ministra della Dc)

Cosa è successo? Niente. Semplicemente i principali partiti politici, quegli stessi che ogni giorno riempiono comunicati stampa e televisioni con proclami per la parità, non hanno cambiato niente nella selezione della classe dirigente. Non lo ha fatto il Pd di Enrico Letta: il Pd vanta zero candidate donne nelle principali città. Zero. 

Ma le cose non vanno meglio neanche nel centrodestra, dove invece negli ultimi anni abbiamo visto più donne ricoprire ruoli di vertice (una per tutti Giorgia Meloni dentro FdI): c’è una candidata per Fdi e Lega a Benevento, ma non rappresenta neppure tutta la coalizione di centrodestra e ha inutilmente sfidato il sindaco uscente Mastella. Ce n’era un’altra a Carbonia in Sardegna, ma sfavorita (boicottata anche dai partiti pro Solinas). In questo quadro di immobilismo totale, c’era un’unica eccezione: il M5s ha candidato 7 donne ed era del M5s l’unica sindaca (Virginia Raggi a Roma) che poteva giocarsi la partita con i colleghi uomini. L’altra eccezione, estranea però a questa “classifica”, è la candidata di Pd e M5s per la Regione Calabria: i giallorossi sostenevano Amalia Bruni.

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Una foto di gruppo delle donne parlamentari di Forza Italia

Lo squilibrio, al di là di qualsiasi fede o appartenenza politica, era palese a tutti e bastava scorrere i nomi dei candidati per avere un quadro molto chiaro della situazione. Lasciamo (per ora) da parte le liste: lì è la legge a stabilire che, per i Comuni con più di 3mila abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai 2\3 dei candidati ammessi. Prendiamo allora chi aspira a diventare primo cittadino o prima cittadina e consideriamo, per scremare, i candidati delle 20 città principali (capoluoghi di provincia o Regione). Ebbene non solo su 162 candidati, solo 30 erano donne, ma nella maggior parte dei casi si trattava di candidate di partiti minori. I 5, pur presenti solo in 18 dei 20 tra i Comuni considerati, aveva  7 candidate sindache. E tre di queste correvano nelle competizioni più importanti della tornata elettorale: Valentina Sganga a Torino, Virginia Raggi a Roma e Layla Pavone a Milano. Le altre correvano a Cosenza (Bianca Rende), Rimini (Gloria Lisi), Trieste (Alessandra Richetti) e Salerno (Elisabetta Barone). Inoltre, e paradossalmente il M5s candidava uomini nei 7 Comuni dove andava in coalizione con il Pd e sosteneva nomi del centrosinistra. Ma se dai 5 stelle arrivava un segnale, sugli altri fronti nulla si muove e nulla cambia. Escludendo appunto Benevento, dove Fdi e Lega avevano puntato su Rosetta De Stasio, o Carbonia dove hanno puntato su Daniela Garau, negli altri centri hanno scelto sempre uomini. Allora chi ha candidato le donne? Potere al popolo, partitino della estrema sinistra, ne sosteneva quattro: Marta Collot a Bologna, l’ex assessora di De Magistris Alessandra Clemente a Napoli, Elisabetta Canitano a Roma, Bianca Tedone a Milano. Poi Italexit sostiene Veronica Verlicchi a Ravenna; Sinistra Unita candidava l’ex M5s Dora Palumbo a Bologna e Tiziana Cimolino a Trieste con i Verdi; nella Capitale il Partito Comunista schierava Micaela Quintavalle e il Partito Comunista Italiano Cristina Cirillo. Correva per il Partito Comunista a Torino Greta Giusi Di Cristina. Seguivano candidate di varie liste civiche, nessuna sostenuta dai principali partiti politici nazionali (né di destra, né di sinistra): Anna Maria Minotti e Simona Scocozza a SalernoFabiola Cenciotti, Margherita Corrado Monica Lozzi a Roma; Caterina Cazzato VareseAnnalisa Muzio e Nicoletta Zuliani a Latina; Rossella Solombrino a Napoli; Anna Ciriani Pordenone; Aurora Marconi a Trieste. Segnatevi i nomi perché, di loro, non sentirete mai più parlare.

Un passo indietro. Non che le cose andassero molto meglio prima. Nei 20 Comuni citati, le sindache uscenti erano solo cinque sul totale (Carbonia, Cosenza, Savona, Roma e Torino). Ma se già i numeri erano risicati, ora lo sono ancora di più: in nessuna delle 20 città sono state elette sindachesse donne, la fascia di primo cittadino è solo ‘maschia’ e, su sei grandi città capoluoghi di regione andate al voto, nessuna ha un sindaco donna. 

Specie per il Pd il tasto è dolente e la nota stona: il primo atto di Enrico Letta segretario è stato sostituire i capigruppo – entrambi uomini – del Pd in Parlamento per dare un segnale di equa rappresentanza (così almeno disse): via Marcucci e Delrio, dentro Malpezzi e Serracchiani (ma Benifei, capogruppo del Pd-Pse in Europa è rimasto lì…). Ma per intervenire sulle candidature alle amministrative era troppo tardi, pare, è la scusa, e si è ritrovato con un palmares di sole giacche e cravatte in tutte le sfide principali.

Ma come stanno le amministrazioni? Secondo l’ultimo report di Anci (fermo, però, al 2020, quindi prima delle ultime elezioni) sono 2.721 su 7.753 i Comuni che sono stati amministrati negli ultimi 30 anni almeno una volta da una sindaca. Se si guardano la Regioni, le più numerose sono state in Lombardia. Seguono: Piemonte; Veneto; Emilia Romagna; Sardegna e Toscana. Attualmente vi sono in carica il 15% di sindache (1167), contro l’85% di sindaci (6586). Rispetto al 2019 c’era stato un lieve miglioramento (+0,6), che però rischia di non essere riconfermato. Al tempo stesso però, sono aumentate le assessore (44%, +1 rispetto all’anno precedente), ma 1\3 di queste sono impegnate su temi relativi a “casa, famiglia, scuola e politiche sociali”. Solo l’11% si occupa di temi non considerati femminili come “innovazione, decentramento e risorse”.

Poche donne, e perdenti: tranne i 5Stelle, centrodestra e centrosinistra sono ‘maschi’…

Poche donne, e perdenti: tranne i 5Stelle, centrodestra e centrosinistra sono ‘maschi’…

Poche donne, e perdenti: tranne i 5Stelle, centrodestra e centrosinistra sono ‘maschi’…

Giustificazioni? Molte, specie a sinistra. Per dire, alcuni candidati, nel centrosinistra, sono usciti dal ‘sacro’ lavacro delle primarie (Lepore a Bologna, Lorusso a Torino) ma solo sotto le due Torri concorreva una donna (la renziana Isabella Conti), peraltro finita battuta. Per il resto, tutti i maschi, gambe in spalla e pedalare, nel senso di cercare i voti di elettori che, però, sono ormai più donne che uomini. Sarà un caso, ma tutte le elezioni comunali, dai centri piccoli e medi, in formato più attenuato, fino alle grandi città, in forma eclatante, sono state contraddistinte dall’elevato astensionismo (ha votato solo il 54% dell’elettorato in Italia che risulta il dato più basso dal 1948 in poi).

Amalia Bruni

Amalia Bruni

Una donna c’era, in zona Pd, la ricercatrice Amalia Bruni in Calabria per il centrosinistra, ma al netto di una – rovinosa – sconfitta, il suo nome è ‘uscito’ dal cilindro dell’alleanza tra Pd e M5s solo dopo molti rifiuti (di entrambi i sessi) e ha perso lo stesso.

Simonetta Matone Magistrato

Simonetta Matone Magistrato

Anche il centrodestra, che pure di candidati donne ne ha cercati parecchi, specie a Milano, ma senza riuscire a convincerne nessuna, ha candidato, praticamente, quasi tutti uomini. Solo a Roma aveva lanciato, in teoria, una vicesindaca, che doveva far coppia con il candidato, Enrico Michetti, la magistrata Simonetta Matone. Peccato sia subito uscita dai radar, in campagna elettorale: scomparsa, silente, mai presente, anche perché – pare, così si dice – assai scettica sulle uscite di Michetti.

la sindaca uscente, Virginia Raggi

La sindaca uscente, Virginia Raggi

Solo i 5Stelle si sono distinti, questo pure va detto, in quanto a difesa della ‘parità di genere’. Tre candidate donne tre in tre città grandi: la sindaca uscente, Virginia Raggi, a Roma, la manager del Fatto quotidiano, Layla Pavone, a Milano, e la capogruppo uscente in consiglio comunale, Valentina Sganga, a Torino. Considerando che, nelle altre due grandi città in lizza (Bologna e Napoli), i 5Stelle hanno scelto di appoggiare i candidati del Pd, si potrebbe dire che, per le donne, le scelte del M5s sono state ‘un bell’acchiappo’. Peccato, però, che sono state scelte ‘a perdere’. Hanno perso tutte, e sonoramente: la Sganga a Torino e la Pavone a Milano con percentuali infime o imbarazzanti (dal 3% al 9%), la Raggi a Roma con una buona percentuale (20%), ma comunque quarta, dietro Calenda, e ovviamente fuori dal ballottaggio.

 

Le promesse dei sindaci: faremo tutti vice-sindaci donne

L’autocandidatura di Gualtieri

Gualtieri

Ora, però, molti sindaci neo-eletti, a partire proprio da Gualtieri, ma anche gli altri delle più grandi città (Lorusso a Torino, Sala a Milano, Lepore a Bologna, Manfredi a Napoli, tutti dem), provano affannosamente a correre ai ripari: ecco perchè hanno già nominato o promettono di elevare, nel ruolo di vice-sindaco (spesso un puro orpello, in una Giunta comunale, solo a volte con veri poteri), sempre e solo ‘donne’.

Per non dire, ovviamente, di quella ‘parità di genere’ che, nella scelta dei vari assessorati, i candidati del Pd e del centrosinistra ‘devono’ rispettare (per il centrodestra la ‘regola’, si sa, non vale, o vale solo quando ‘gli gira’ bene): un po’ perché è un ‘mantra’ dei dem e un po’ perché, insomma, avere donne, dentro alla propria giunta, è un bel ‘fiore all’occhiello’ (da maschilista, dico: un bel vaso da esporre sulla finestra per far vedere che è curata..).

 

“Vicesindaca qua! Vicesindaca là! Tutte le cercano…”. Il ‘toto-nomi’ sulle ‘vice’, ovviamente, già impazza forte

Il ‘toto-nomi’, ovviamente, già impazza forte

Il ‘toto-nomi’, ovviamente, già impazza forte

A Roma, per dire, che ci sarà una vice-sindaca donna è una certezza, chi lo sarà un enigma. Girano, come variabili impazzite, una serie di nomi, tutti, ovviamente, di donne e ‘di peso’. Si parte da Francesca Bria, attuale consigliere nel cda della Rai (che, però, dovrebbe dimettersi da un incarico appena iniziato), si passa per la ex ministra, ai tempi dell’Ulivo, Giovanna Melandri (la quale, a sua volta, dovrebbe dimettersi dalla direzione del Museo Maxxi). O ancora, da Michela De Biase, ex consigliera comunale e, anche, moglie dell’attuale ministro ai Beni culturali, Dario Franceschini. Si finisce con Cecilia D’Elia, ex Fgci, zingarettiana doc, oggi a capo del Forum delle Donne del Pd, che è assai meno nota, ma ha le migliori chanche: Gualtieri ‘è’ espressione del ‘giro’ di Bettini, Zingaretti, che gli ha già messo di fianco il suo capo di gabinetto, vuole un suo ‘uomo’ (cioè, nel caso, una donna…) dentro la Giunta, accanto al neo-sindaco. Per mille motivi – più politici che ‘femministi’ – potrebbe essere lei, la D’Elia, la ‘ecce faemina’ della Capitale. A meno che non diventi sua ‘vice’ la coordinatrice della campagna elettorale di Gualtieri, la ex FI-ex Ncd-ex centrista Beatrice Lorenzin (ex ministro alla Salute, pure).

Gianna Pentemero

Gianna Pentemero

A Torino, invece, sono in pole position, sempre come vice-sindachesse, due donne: Chiara Foglietta e Gianna Pentemero, che però più diverse di così non potrebbero essere. La Foglietta, infatti, consigliera comunale uscente, è una militante del movimento Lgbt+ e, soprattutto, è madre di due bambini figli suoi e della sua compagna, Micaela Ghisleni.

chiara foglietta

Chiara Foglietta

La sua è una coppia omogenitoriale e fu proprio la sindaca uscente, Chiara Appendino (M5s) a iscrivere i figli allo stato civile dell’anagrafe della città sotto la Mole antonelliana. Un atto, datato ormai 2018, che ebbe del rivoluzionario: una svolta epocale, per l’Italia, dato che la coppia Foglietta-Ghisleni, sposate con il rito delle unioni civili, insieme ad altre due coppie, non avevano mai visto un primo cittadino firmare un atto del genere senza la disposizione di un tribunale, a causa del vuoto normativo.

La Pentemero, ex assessore regionale a Istruzione, Lavoro e Formazione professionale, capolista del Pd alle comunali, invece, è cattolica, ma milita nella sinistra interna Pd (area Cuperlo). Ora, dunque, sta al sindaco Lorusso scegliere quale delle due – donne – sarà la sua vicesindaca.

manfredi gaetano

Gaetano Manfredi

Scendendo per lo Stivale, è andando a Napoli, il neo-sindaco, Gaetano Manfredi, non ha ancora sciolto le riserve sulla sua giunta, ma sulle ‘quote rose’ dovrebbe comportarsi in modo salomonico. Dato che, sotto il Vesuvio, si è registrata la sola alleanza ‘organica’ tra Pd e M5s, bisogna scegliere come ‘dividere’ le cariche, tra le donne.

enza amato

Enza Amato

E, dato che Enza Amato (43 anni, laureata in Sociologia, e figlia d’arte, di Tonino Amato, ex sindacalista, assessore al Comune con Bassolino sindaco e per ben 15 anni consigliere regionale) sta per essere eletta presidente del consiglio comunale, ‘è d’uopo’ – spiega un parlamentare partenopeo dem di lungo corso, a Montecitorio – “eleggere una 5Stelle a vice-sindaca. Il guaio, un guaio grosso, è che quelli non si riescono ancora a mettere d’accordo tra loro su ‘chi mettere’, quindi noi stamm’ acca’ che aspettamm’ a lor’”. Insomma, vero è che, a Napoli, la politica si fa così (“è sangue e merda”, diceva Rino Formica), ma certo è, anche, che la scelta di ‘una donna’, per il ruolo di vice-sindaco, ha molto poco di ‘nobile’ e molto ‘assaie’ di tatticismi politicisti.

Beppe Sala

Beppe Sala

Naturalmente, nella ‘civile’ e ‘laboriosa’ Milano, le cose vanno assai diversamente. Il neo-sindaco, già sindaco uscente, Beppe Sala, ha rotto gli indugi e nominato la giunta in tempi record. Una settimana dopo il voto i dodici assessori, metà uomini e metà donne, erano già schierati. Solo tre le riconferme, il resto della giunta è tutta nuova.

Gaia Romani

Gaia Romani

Inoltre, a soli 25 anni e oltre duemila preferenze, Gaia Romani è il più giovane assessore, e donna. Per lei la delega a Servizi civici, partecipazione e decentramento. Un riconoscimento importante per una giovane che è risultata la terza più votata delle donne presenti nelle liste schierate con Sala. Una laurea in giurisprudenza, conseguita sei mesi fa, da dieci anni iscritta ai circoli del Pd, Romani, giustamente, esulta per la nomina: “Se accade qui si può è possibile ovunque”, dice con ottimismo. Non è la rottamazione renziana (la Romani lo è, fiera di esserlo, contenta lei…), ma una svolta sì.

A Bologna, anche, l’ex assessore, ora sindaco, Matteo Lepore, si è mosso con rapidità.

Emily Clancy

Emily Clancy

Sarà Emily Clancy, giovane consigliera comunale uscente, guida della lista di sinistra-sinistra Coalizione civica, che ha anche il record di preferenze, la vice del neo-sindaco di Bologna. Per lei anche le deleghe a Casa, Economia della notte, Pari opportunità e Diritti Lgbtq+. Lo dice lo stesso Lepore, presentando la propria giunta, composta da dieci assessori (cinque uomini e cinque donne). Fuori a sorpresa, nonostante l’elezione in Consiglio comunale con 2.586 preferenze, il leader delle Sardine, Mattia Santori, che sarà consigliere delegato al Turismo, alle Politiche giovanili e ai Grandi eventi turistici.

Mattia Santori

Mattia Santori

Uno di quei casi in cui, decisamente, a un uomo (solo sorridente, ma banale) anche chi scrive preferisce di gran lunga una donna tosta e capace. Perché la ‘parità di genere’ va bene, ma poi – vivaddio – bisognerà pur premiare le capacità (ecco, l’abbiamo detto…).

 


Fuga dalle urne (anche dei ceti medi): «Il conto lo paga sempre la destra», dice il politologo Vassallo. «Negli ultimi 20 anni affluenze scarse hanno favorito le coalizioni di centrosinistra», aggiunge. Invece, il capogruppo di LeU, Fornaro, per combattere l’astensionismo ha inventato la formula ’40-20-20’…

 

sinonimi di astensione

Sintomi di astensione

A metterla giù in numeri assoluti, fa impressione. Anno 1948, prime elezioni per il primo Parlamento dell’età repubblicana: elettori 29.11.554, votanti 26.855.741, pari al 92,23%. Elezioni politiche del 2018, XVII legislatura: 46.505.350, votanti 33.923.321, pari al 72,94% (i dati, ovviamente, sono relativi alla sola Camera dei Deputati). Certo, l’obiezione è facile: erano le elezioni del 1948, quella della scelta ‘storica’ tra la Dc e le sinistre, ma il crollo di partecipazione è impressionante. Senza dire che, mentre lungo la intera Prima Repubblica (1948-1992), il tasso di partecipazione al voto si era fissato, stabilmente, intorno al 90% e rotti e il tasso di astensionismo non superava il 6-7% (solo dalle elezioni del 1983, e per ‘colpa’ di ex elettori del Pci, in poi inizia a superare il 10%), a partire dalla nascita della Seconda Repubblica, cioè dal 1994 in poi, esplode. Dal 12,65% del 1992, il ‘partito’ degli astenuti sale, in modo progressivo, e inesorabile, fino al 27,07% del 2018. Milioni di elettori restano ‘tutti a casa’, che si rifugiano nel non voto. 

Alle ultime elezioni comunali, poi, quelle del 3-4 ottobre, si è raggiunto il minimo storico assoluto: 54.7% contro il 61,6% di cinque anni fa al primo turno. Ancora più in basso, ai ballottaggi (un po’ sotto, come media nazionale, al 45%). Dati, è ovvio, non comparabili tra loro, ma solo città per città, ma simili ovunque. Un disastro: fuga in massa dal voto.

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Federico Fornaro

Sul tema, il capogruppo di LeU alla Camera, Federico Fornaro, appassionato cultore della materia, ha scritto un libro imprescindibile ed accurato, “Fuga dalle urne. Astensionismo e partecipazione elettorale in Italia dal 1861 a oggi” (Bollati Boringhieri). Spiega Fornaro: “Vivevamo in un sistema bloccato con i partiti che fidelizzavano gli elettori. Con tassi di partecipazione al voto del 90%, e anche di più, eravamo il terzo Paese al mondo per numero di votanti. La cesura arriva con il crollo del sistema dei partiti, dopo il 1992. Non andare a votare non vuol dire più ‘tradire’ il proprio partito, la propria ‘chiesa’. I partiti non fidelizzano più gli elettori e la partecipazione al voto scende all’83-85%. Nel 2013, però, arriva la tempesta perfetta: si scende ancora, ci si ferma al 75%”. Per la precisione, per eleggere la XVII legislatura della Camera, votano 35.270.926 cittadini (il 75,20%) su 46.905.154 e si registrano 1.265.171 schede bianche.

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Prof Salvatore Vassallo

Il politologo Salvatore Vassallo, professore di Scienza della Politica all’università di Bologna, in merito alle ultime elezioni comunali, riflette così sulle conseguenze politiche del voto: “Il risultato, come è capitato spesso in questo ventennio, è stato in larga parte determinato dalla risacca dell’astensionismo che ha riguardato in maniera asimmetrica una parte rispetto all’altra. Da una analisi accurata dei dati territoriali intra-urbani si capirà meglio quali componenti sociali hanno ‘tradito’ di più Meloni e Salvini, che hanno puntato su candidati deboli, ma il presunto ‘super-astensionismo’ delle periferie, andate in passato a destra, mi pare solo una congettura

“Che siano state le periferie sofferenti o la classe media moderata ad abbandonarlo, disertando le urne, nel centrodestra – spiega con acume VassalloSalvini & Meloni sono sotto accusa. Almeno in questa fase, sembra proprio che non possano al tempo stesso occhieggiare agli estremisti, farsi la guerra tra loro e ambire a rappresentare metà del Paese. Sono i principali indiziati, ma solo per chi guarda la storia troppo da vicino. Se l’elettorato moderato di centrodestra non ha rappresentanza e il derby si gioca tra due sovranisti, la colpa principale è di Berlusconi, che pur di rimanere titolare della sua ditta ha sempre impedito l’affermazione di un leader che lo sostituisse. Dopo le ultime amministrative il vuoto che ha prodotto, da quella parte, si vede ancora di più”.

meloni salvini sovranisti protesta camera lapresse 2019

Meloni e Salvini – LaPresse

Ma la vittoria del centrosinistra – ammonisce Vassallopur essendo stata superiore alle attese non ha avuto dimensioni ‘mai viste’, ma, anzi, abbastanza simili a quelle a cui eravamo abituati, a fasi alterne, nel ventennio bipolare, e che si erano viste, proprio a vantaggio del centrosinistra, prima dell’avvento dei populismi (2013-2018)”.

Tornando a Fornaro, lo studioso, ma anche il politico, ha ‘inventato’ lo schema 40-40-20: “c’è un 40% di elettori fedeli, che resiste, un 20% di astenuti ormai cronici, e un 40% di elettori, o di astenuti, intermittenti, che decide di volta in volta e solo negli ultimi 10 giorni prima del voto se andare a votare e, nel caso, chi votare. Non sono affatto tutti di centrodestra e le elezioni le vinci solo se li conquisti. Vedremo chi ci riesce, ma una democrazia dove vota così poca gente è una democrazia con istituzioni delegittimate.