La fiducia al Senato per il governo Meloni è una passeggiata di salute, tranne Renzi…
27 Ottobre 2022Sommario
Una giornata un po’ così… La fiducia al Senato per il governo Meloni è una passeggiata di salute, anche un po’ noiosa. Tranne Renzi…
Nb: questo articolo è stato pubblicato, sul sito di notizie Tiscali.it il 27 ottobre 2022
Una giornata ordinaria vede il primo governo guidato da una donna, ma nel centrodestra…
E’ una giornata un po’ così. Ordinaria. Non fa né freddo né caldo. C’è gente, sì, ma non troppa. Tutti sono vestiti a festa, ma il clima è moscio. Il Senato della Repubblica dà il suo via libera, con il voto di fiducia che arriva verso le otto di sera, per ‘chiama’ (cioè appello) nominale, al primo governo Meloni, primo di una donna premier, ma non certo il primo governo di centrodestra. Insomma, sarà anche “prima del suo Nome”, Giorgia Meloni, come dicono nella serie tv ‘House of Dragons’, ma non è la prima della dinastia dei Draghi, ecco, anche se è con lei che “l’inverno sta arrivando” come direbbero i buoni.
Silvio Berlusconi, nel 1994, arrivò molto prima di lei, che era una bambina, all’epoca, e non a caso la sinistra già allora si stracciava le vesti contro il Cavaliere Nero che, sdoganando An al Sud e la Lega al Nord, avrebbe di fatto distrutto la democrazia, conculcato diritti, ucciso le libertà. Non è successo questo, ma va di moda dirlo, allora come ora, insomma ‘si porta’ sempre bene.
Berlusconi è ancora lì, malfermo sulle gambe, ma rientrato al Senato dalla porta principale, ricorda il personaggio di Aldo Fabrizi (vecchio costruttore edile, fascista, romanissimo) che a Vittorio Gassmann urla, durante una memorabile scena di ‘C’eravamo tanto amati’, “Io nun moro! Hai capito?! Nun moro!”. Insomma, resiste, e si riprende l’onore perduto, dopo essere stato cacciato, 9 anni fa, dal Senato per effetto della legge Severino e di una sentenza passata in giudicato, ma pena scontata e lui riabilitato.
Il ‘bacio della morte’ del Cavaliere Nero. Silvione, però, non è più quello di una volta…
A nove anni di distanza dal voto che ne sancì la decadenza, Silvio Berlusconi torna a prendere la parola in Senato per esprimere il voto a favore della fiducia all’esecutivo di Giorgia Meloni. Un discorso in cui le polemiche sul numero di ministri non adeguato al consenso di Forza Italia non si affacciano mai, così come le trattative in corso per i posti di sottogoverno: ne avrebbe voluti di più, come compensazione, ma alla fine saranno 8, tra cui due vice ministri.
Torna dopo nove anni, La Russa – voce roca, un po’ beffarda, considerando che FI ne voleva sabotare la nomina – gli squilla un ‘bentornato!’. Nel 2013, mentre ancora doveva uscire di scena, il suo sì – quasi a sorpresa e “non senza interno travaglio”, come disse allora – fu per l’esecutivo di Enrico Letta.
Ora il Cavaliere si fa portavoce degli azzurri e non nasconde il valore della rivalsa: “Per me è un motivo di grande soddisfazione riprendere la parola in Senato, dopo nove anni”. Lo traduce quasi in un deja vu, visto che interviene “proprio quando il popolo italiano ha scelto ancora una volta di affidare il governo del Paese alla coalizione di centrodestra”. Unica zampata, appunto, quando si intesta la paternità del ritorno a Palazzo Chigi del centrodestra. Per il resto, quelle del leader di Forza Italia sono parole misuratissime e affidate a un testo scritto. Scelta probabilmente non casuale dopo lo strabordare dei giorni scorsi nell’audio rubato in Parlamento. Nelle nove pagine che legge in aula è tutta una fiera di ovvi.
La standing ovation e l’ipocrisia degli alleati
Il governo gli tributa una standing ovation, promossa dalla premier (che si alza e lo va a ringraziare di persona) e da gran parte dei suoi ministri. Restano seduti Francesco Lollobrigida e Giancarlo Giorgetti, come intercettano le telecamere del Senato. Il gran ritorno dell’ex premier, dopo la decadenza da senatore decisa nel 2013, ha toni soft e nessun trionfalismo. Accolto dai suoi fedelissimi, Ronzulli in testa, a tarda ora, Berlusconi ci prova, a ruggire, ma è malfermo, sulle gambe, stanco, la voce è impastata, fioca, si capisce a malapena cosa dice. Ronzulli e Gasparri, accanto a lui, sembrano più due infermiere badanti pronti a passargli i Sali, che capogruppo e vicecapogruppo degli azzurri.
Certo, nel suo discorso – da tutti molto atteso – c’è la promessa di lealtà e sostegno al governo che serve ad allontanare le burrascose polemiche che hanno accompagnato la formazione della squadra. C’è anche il giuramento di fedeltà ai valori dell’Occidente che deve far dimenticare lo scivolone dell’audiogate e quella versione della guerra in Ucraina che sembrava uscita direttamente dalla bocca di Vladimir Putin.
Silvio voleva di più ma deve accontentarsi. E il suo vaticinio (“durerà 5 anni”) è un malaugurio
E’ il giorno dello scambio di affettuosità, degli auguri di buon lavoro per un impegno che, dice, “durerà cinque anni” (il bacio della morte…). D’altra parte, nell’intervento, nella sua stesura, c’è anche lo zampino di Gianni Letta che ieri è stato ospite a cena a villa Grande insieme ai big di FI per temperarne gli eccessi.
Ma il cuore del discorso è nel passaggio in cui ricorda che siamo all’ultimo capitolo di un racconto che è cominciato solo grazie alla sua decisione di fondare il centrodestra. “Se oggi per la prima volta alla guida del governo del Paese, per decisione degli elettori, c’è una esponente che viene dalla storia della destra italiana, questo è possibile perché 28 anni fa è nata una coalizione plurale, nella quale la destra e il centro insieme hanno saputo esprimere un progetto democratico di governo della nazione”.
“Se tu sei qui è solo perché io 28 anni fa…”. Berlusconi prova a riscoprirsi ‘atlantista’
In parte è la normale rivendicazione di chi ha dovuto lasciare a un’altra leader la prima fila della scena, per altri versi però è anche un modo di ricordare a Giorgia Meloni che non può prendere le decisioni da sola senza il dovuto rispetto verso gli alleati e, nello specifico lui.
Lo stop a Licia Ronzulli come ministro e a un esponente di FI a viale Arenula evidentemente hanno lasciato il segno. Alla fine del suo intervento, la standing ovation di (quasi) tutto il governo che – viene riferito – ha particolarmente apprezzato. Anche Giorgia Meloni si alza in piedi (gesto del tutto irrituale, per un premier) e si avvicina ai banchi per ringraziarlo delle sue parole. Parole che provano per l’ennesima volta a mettere un punto fermo sul fronte politica estera.
Rispetto alla guerra in corso, spiega, “non possiamo che essere con l’Occidente, nella difesa dei diritti di un Paese libero e democratico come l’Ucraina. Noi dobbiamo lavorare per la pace e lo faremo in pieno accordo con i nostri alleati occidentali e nel rispetto della volontà del popolo ucraino. Su questo la nostra posizione è ferma e convinta, è chiara e non può essere messa in dubbio da nessuno, per nessun motivo”. Sipario. La pratica Berlusconi è già archiviata.
Solo che i leader della sinistra, nel frattempo, si sono accesi e consumati come candele, sparsi come funghi, morti come piccioni uccisi da aquile rapaci. Dal 1994 ad oggi, contando a spanne, ecco Occhetto-D’Alema I e II-Fassino-Veltroni I e II-Bersani-Renzi-Zingaretti-Letta e ci siamo limitati ai primi che ci sono venuti in mente ma sono molti di più. Un’ecatombe. La sinistra, però, se perde ‘nun ce vo’ sta’, come si dice a Roma.
Una maggioranza blindata, quella del Senato
Ma torniamo alla cronaca. La maggioranza si mostra molto compatta al Senato, a differenza che nel voto sull’elezione del presidente La Russa. Con 115 voti favorevoli, 79 voti contrari e 5 astenuti, il governo presieduto da Giorgia Meloni ha incassato la fiducia di Palazzo Madama.
Se si esclude quello del presidente del Senato, Ignazio La Russa, che non vota, tutti i senatori della coalizione di centrodestra hanno votato sì. Meloni ha ottenuto il voto favorevole dei 62 senatori di Fratelli d’Italia, dei 29 della Lega, dei 18 di Forza Italia e dei sei di Noi moderati.
In futuro, certo, non saranno tutti presenti (9 senatori sono oggi ministri, non sono pochi) e i problemi nelle commissioni ci saranno eccome, con pochi voti di scarto, ma per ora ‘tutto bene’.
Compatto anche il voto delle opposizioni. I nove senatori di Azione-Italia viva hanno votato contro, come i 28 del Movimento 5 stelle, i 37 del Pd (Tatiana Rojc, slovena, risulta nell’elenco dei senatori che non hanno partecipato al voto), 3 del Gruppo Misto e 2 del Gruppo Per le Autonomie.
I cinque senatori che si sono astenuti sono Mario Monti e Elena Cattaneo (gli altri quattro senatori a vita, Giorgio Napolitano, Carlo Rubbia, Liliana Segre e Renzo Piano non hanno risposto alla ‘chiama’ come Celestino Magni del Misto) e altri tre senatori del gruppo Per le Autonomie, che poi son quelli che rappresentano Svp-Patt-Uv.
Meloni dice la sua: più moscia ma più concreta
La premier Giorgia Meloni ‘debutta’ al Senato, dove fino a oggi non aveva mai parlato. Il secondo giorno di scuola va sempre molto meglio del primo. La premier ha ritrovato la voce. Almeno un po’. Non osa mise che scandalizzano. Non fa battute al fulmicotone. Non striglia nessuno e non fa neppure gaffe a atti di scarsa buona creanza parlamentare, peggiore, in quanto a regole, solo di quella diplomatica d’ambasciata.
Tra i temi che tocca la premier: tetto al contante, che non frena l’evasione e “penalizza i poveri“. Il salario minimo che non risolve il problema dei “bassi salari”. Il Pnrr, di cui si è speso finora la metà dei fondi. E poi la gestione del Covid, le scelte “senza basi” sposando la scienza quasi fosse “una religione”. Da oggi cambia tutto, dice. All’Italia “senza visione”, che non trova soluzioni “efficaci” a tanti problemi promette risposte Giorgia Meloni nell’Aula al Senato dove incassa la fiducia facendo l’en plein con 115 sì.
Sono, i suoi, 49 minuti di intervento, tutto politico, rispondendo punto a punto alle critiche e tracciando la sua ricetta per risollevare l’Italia dalla pesante “eredità” dei governi passati.
“L’operazione verità” sui conti pubblici
Parla fiera, davanti ai senatori, anche se la voce di tanto in tanto la abbandona. Se ne scusa ma non si risparmia nel raccontare la sua idea di Paese dopo che si è fatta una “operazione verità” proprio grazie alle critiche in Aula che hanno fatto emergere la vera situazione in cui si trova il Paese. Che non dovrà passare “dalla dipendenza dal gas russo a quella dalle materie prime cinesi”, che dovrà superare blocchi burocratici incomprensibili, far ripartire le trivelle nell’adriatico perché se il gas lo estraggono altri “non è che inquina di meno”. E trasformare il Sud “nell’hub energetico dell’Europa”, anche per evitare di dover correre a installare rigassificatori “con procedure di urgenza e gravosi impatti sui territori”.
Meloni ha le idee chiare anche sulla pace – è stata criticata per l’assenza della parola nel discorso-manifesto di ieri – che non si ottiene né “con la resa di Kiev” né “con le bandiere arcobaleno” in piazza. Una stoccata a chi, tra le opposizioni, quelle piazze sta per riempirle a inizio novembre. E non l’unica.
Ce l’ha in particolare con il Movimento 5 Stelle, ma anche con il Pd, la neo premier. Quando ricorda chi “brindava per l’abolizione della povertà” e quando spiega che il salario minimo rischia di essere uno “specchietto per le allodole” mentre la soluzione per contrastare il lavoro povero è l’estensione dei contratti collettivi”, oltre al taglio del cuneo 5 punti per alzare tutti gli stipendi.
Gli appetiti degli alleati e il tema sottogoverno
Quando passa al capitolo tasse, invece, chiama in causa direttamente i governi del Pd e l’ex ministro Pier Carlo Padoan. Era proprio lui, ricorda, a sostenere che non c’era correlazione tra livello del contante ed evasione. E delinea una delle prime mosse “concrete” del suo esecutivo, oltre a introdurre la “flat tax incrementale” (che di fatto è un premio “al merito” di chi si impegna per fare di più), anche quella di “rimettere mano al tetto al contante” , trovando il muro di Pd e M5s. Un’idea lanciata poco prima dalla Lega, che in questi primi giorni corre – non senza creare qualche irritazione in casa di FdI – ad anticipare l’agenda. Mentre l’altro alleato, FI, continua a chiedere pari dignità almeno nella partita dei sottosegretari. Che la premier vorrebbe definire il prima possibile ed evitare altre frizioni come quelle nella composizione della squadra di governo. “La situazione è difficile – dice non a caso Silvio Berlusconi, che torna in Senato dopo 9 anni, garantendo il sì “convinto” alla fiducia.
Ne ha per tutti, Meloni: a Ilaria Cucchi che la sollecita tra l’altro sugli scontri alla Sapienza di ieri ribatte che non si va in piazza “per impedire agli altri di parlare“, che “il rispetto delle idee altrui” è l’essenza “della democrazia”.
E respinge le accuse dell’ex magistrato Roberto Scarpinato sottolineando di non essere stupita da un approccio “smaccatamente ideologico”. Lo stesso di “parte della magistratura” che negli anni hanno costruito sulla base di “teoremi” processi “fallimentari” a cominciare da via D’Amelio.
Non risparmia nemmeno il Covid e il Pnrr, i due fiori all’occhiello del governo Draghi: i fondi spesi sono appena 21 miliardi su 42. Non andava quindi poi tutto “così bene” e ora il governo di centrodestra si caricherà anche “la grande responsabilità di velocizzare, sintetizza, ripetendo di fatto il concetto – l’unico finora – che aveva incrinato i rapporti con il suo predecessore.
Quanto alla pandemia, i governi – usa il plurale – hanno adottato provvedimenti senza che ci fossero “evidenze scientifiche”, compreso il via libera ai vaccini ai 12enni. Misure che hanno pure rischiato di fiaccare la lotta alla mafia con “l’uscita di decine di detenuti dal 41 bis con la scusa del Covid“.
Dopo la fiducia di oggi, Meloni e il suo governo possono iniziare a lavorare, anche se va chiusa la partita non facile di viceministri e sottosegretari: gli alleati chiedono posti e di influire sui nomi, la premier accetta che siano indicate delle liste, ma poi vuol essere lei a scegliere. Al Senato circolavano bozze di organigrammi, la presidente del Consiglio vuole chiudere entro la settimana, per dedicarsi poi a tempo pieno ai dossier. Se glielo lasceranno fare.
Quando parla Renzi, il silenzio si fa di tomba
Giorgia Meloni è tutta indaffarata a leggere carte, parlare con i suoi ministri, consultare scartoffie. Ascolta, ovviamente, con grande attenzione l’intervento del Cavaliere, poi di Calderoli, e altri, ma quelli delle tre ‘disunite’ e ‘divise’ opposizioni sostanzialmente li ‘liscia’, nel senso che, di fatto, non se ne cura. Tranne uno. Quello del senatore Matteo Renzi. Alla fine del cui intervento si fa scappare – il labiale, come quello del giorno prima su Conte (“che m….”) non mente – un “bravo, bravo”… Ma cosa ha detto, il leader di Iv di così clamoroso da suscitare l’attenzione e gli applausi (mentali) della premier e l’attenzione assorta di Berlusconi?
Nulla di che, in realtà. Grande apertura sul tema delle riforme, cioè del presidenzialismo (il che, però, già si sapeva). Opposizione ‘all’inglese’ su tutto il resto, non certo ‘all’italiana’ (preconcetta). Parole carine sul ‘piacere’ di veder presto ruzzolare Ginevra, figlia della premier, a palazzo.
Parole di stima per Guido Crosetto, che lo aveva difeso dai processi subiti, penali e mediatici, compreso quello ai genitori (proprio ieri sera, Renzi scappa a Firenze per festeggiarli, a cena). Difesa della premier per gli attacchi ‘femministi’ giunti da sinistra (“E’ puro masochismo”). E una ovvia constatazione: “Ci sono due opposizioni, questo è un problema”. In realtà, ce ne sono tre, di opposizioni (Pd, M5s, Terzo Polo), un guaio.
I dispetti sulle ‘poltrone’ e Renzi che sbotta… La brocca gli parte contro il prof Nicita….
Renzi e i suoi, a digiuno di poltrone (quelle se le sono spartite tutte tra Pd e M5s, in quota parte), vogliono almeno la Vigilanza Rai (per la Boschi), pronti a rinunciare sia al Copasir sia all’Antimafia che a quella – nuova – d’inchiesta sul Covid19. Ma non è affatto detto otterranno il sostegno della maggioranza di governo, decisivo per averne una. In ogni caso, ci si prova. Ecco perché Renzi, tra le tante, bastona sia Pd che M5s e ‘liscia’ la Meloni, oltre a tirarsi dietro torme di giornalisti su e giù per il Transatlantico e fin dentro alla Buvette. Il fuori programma arriva, però, quando, nel suo discorso, più volte interrotto non dai banchi della destra, ma del Pd, sbotta: “Impari almeno l’educazione, su, non dico la politica, che è un’arte, lì non ce la può fare!”.
Ce l’ha, Renzi, con un senatore dell’opposizione. E’ Antonio Nicita, il ‘professorino’ al cubo del ‘professorino’ al quadrato (Enrico Letta) che il Pd ha candidato, bontà sua, in un collegio blindato, non foss’altro perché Nicita, al Pd, gli ha scritto un intero programma. Quello, per capirsi, che parlava tanto di diritti civili e zero diritti sociali.
Renzi fa il Renzi alla buvette e propone ai cronisti, ancora una volta, il suo personale ‘spiegone’ sulla vicenda dell’intesa Pd-M5s sulle commissioni di Vigilanza i voti in più a La Russa.
Insomma, anche ieri, nell’austera e fredda aula del Senato – storicamente piccola, ma diventata, con il taglio del numero dei parlamentari, improvvisamente ‘grande’, anzi enorme, oltre che ricca e onusta di storia, quadri, stucchi, marmi – è andata in scena la ‘divisione’ di tre opposizioni (Pd, con coté Verdi-SI, a loro volta per conto loro, M5s, Terzo Polo). Le quali tre opposizioni, in teoria, dovrebbero andare d’accordo, cercare punti d’intesa, raccordarsi un minimo, ecco, almeno nel fare opposizione al governo Meloni. E, invece, nisba. Ognun per sé, Iddio per tutti. Uno spettacolo, identico a quello andato in scena il giorno prima alla Camera, penoso. Anzi, al Senato, lo spettacolo è molto, molto più penoso.
Tre opposizioni divise su tutto…. Che pena!
Il ministro Lollobrigida è al centro di molti capannelli. Sono le sei di sera, interventi di altri big non ce ne sono, molti a stringere la mano a uno dei big di FdI che è tra quelli che hanno in mano il pallino della partita dei sottosegretari. Nei corridoi si vedono vecchi e nuovi parlamentari. Mario Borghezio sfoglia alcuni Il ministro Lollobrigida è al centro di capannelli.
Sono in molti a stringere la mano a uno dei big di FdI che è tra quelli che hanno in mano il pallino della partita dei sottosegretari. Nei corridoi si vedono vecchi e nuovi parlamentari. Mario Borghezio sfoglia alcuni giornali, a fare capolino anche Antonio Razzi e Domenico Scilipoti.
Dunque, vediamole, le tre opposizioni in campo. I 5Stelle – tutti vestiti benissimo, elegantissimi, la gioia di essere ‘rientrati’ o ‘arrivati’, al Senato, è massima, sprizza da tutti i pori – si perdono in un delirio di giustizialismo e di veterocomunismo. Scarpinato lega le stragi mafiose al neofascismo e, di conseguenza, al governo Meloni, in un parallelismo che farebbe rabbrividire Aristotele.
Ettore Licheri accusa il ministro alla Difesa, Crosetto, di essere il “terminale del complesso militar-industriale che schiavizza l’intero Mondo” (parole che, negli anni 70, usavano solo i gruppi più ’radicali’ e ‘sovversivi’, per tacere di altri…). La neo-capogruppo, Floridia, fa un discorso piatto con relativo non sense (“Votiamo no, ma è una donna, ci sorprenda”). La capogruppo dem, Malpezzi attacca sul merito delle questioni (e viene, a sua volta, attaccata da Renzi: “eri una pasdaran del merito, ora lo rinneghi”) usa parole gentili e cavalleresche, annuncia il no alla fiducia.
La distanza – fisica, oltre che politica – dei 5Stelle dai democrat è di palmare evidenza. Ognuno sta per conto suo. I due gruppi ‘non’ si parlano. Figurarsi il Pd e i 5s con quelli del Terzo Polo. Si ignorano e basta. Manco si trattasse di affrontare, da vecchi squadristi in camicia nera, orde di camicie rosse, si tengono così lontani, gli uni con gli altri, che l’impressione è che si schifino proprio, ecco. Detto ciò, va anche segnalato che pure dentro il Terzo Polo ci sono linee di frattura non piccole.
Quando, in Transatlantico, compare Renzi, la ‘muta’ di giornalisti, addetti stampa, curiosi, gli si fa sotto come un branco di lupi affamati di battute e motti di spirito.
Quando passa Carlo Calenda – vestito come uno studente al primo anno a Eton – non se lo fila nessuno e lui non parla con nessuno ma se ne sta, zitto e corrucciato, coi suoi pensieri. Quelli di un non leader che resterà sempre tale. Solo.