Congresso Pd tra candidati e Statuto. Aspetta oggi, aspetta domani. Ma quando si candida Minniti?

Congresso Pd tra candidati e Statuto. Aspetta oggi, aspetta domani. Ma quando si candida Minniti?

8 Novembre 2018 0 Di Ettore Maria Colombo

 

Pubblico qui, in forma originale per questo blog, una ricognizione sullo stato dell’arte della discussione interna al Pd che ho svolto in tre capitoletti e lungo su tre direttrici: l’indecisione di Marco Minniti a scendere in campo; i tanti (troppi) candidati al prossimo congresso del Pd e lo Statuto del Pd, che potrebbe portare a soluzioni a oggi inedite; infine, l’ombra della figura di Matteo Renzi sulla candidatura di Minniti con spiegazione del perché tarda ad arrivare.

 

 

  1. Minniti guarda la sfera di cristallo e medita, ma intanto i candidati al prossimo congresso dem proliferano. 

Minniti

 

Come tutte le cose che riguardano ‘il magico mondo’ del Pd anche la candidatura di Marco Minniti al prossimo congresso dem (a proposito: c’è chi vuole, pare si tratti di Martina e della minoranza, cambiare lo Statuto, facendo saltare la norma che prevede la coincidenza tra segretario e candidato premier, ma ne parlo in fondo a questo articolo) è diventata un enigma, stile Terzo Mistero di Fatima, sempre più difficile da sciogliere. E così, il ‘giorno buono’ per lanciare la candidatura di Minniti, pronto a correre, sembra essere sempre domani, come in loop che tende all’infinito.

 

Zingaretti governatore del lazio

Il governatore del Lazio Nicola Zingaretti

Eppure, la candidatura di Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, è in campo da mesi ed è ufficiale almeno da settembre mentre i comitati ‘pro-Zinga‘ stanno spuntando come funghi in tutt’Italia. Zingaretti conta già su nomi importanti nel Pd (l’ex premier Paolo Gentiloni, il capofila di Area dem, Dario Franceschini, e il leader della sinistra interna, Andrea Orlando) ma anche su una buona rete di amministratori locali e potrà presto contare anche sulla sponsorizzazione di fatto degli ex scissionisti di Mdp, oggi ancora  in Leu ma sul punto di uscirne sbattendo la porta da un partito mai nato (Leu, appunto) se Zingaretti dovesse farcela. Anche Francesco Boccia, per conto del governatore pugliese, Michele Emiliano, ha detto che lui correrà al congresso né intende tirarsi indietro dalla corsa il renziano (ex atipico e ormai dissidente) Matteo Richetti. Come pure ci sarà Cesare Damiano, in nome di una nuova – e minuscola – area, i Laburisti dem creata da lui stesso. Infine, correrà Dario Corallo, il giovane dem romano che si è auto-lanciato da solo,. Ci sta, invece, pensando Gianni Cuperlo. Il quale, però, più probabilmente dovrebbe appoggiare la candidatura dell’attuale segretario dimissionario, Maurizio Martina, se questi, effettivamente, scenderà in campo a sua volta, come pure pare proprio che sarà, per il congresso. Forte anche, Martina, dell’appoggio, in dirittura d’arrivo, sia dell’area di Matteo Orfini che di quella di Graziano Delrio.

 

Una tale e tanta proliferazione di candidati che ha creato persino un ‘dibbbattito‘ (più interno che esterno, nel senso che i giornali, con l’eccezione di Repubblica, ormai molto poco si occupano delle beghe interne al Pd…) sulle ‘regole’ delle primarie. Infatti, se nessuno dei candidati ottenesse – dopo la prima fase, quella delle primarie ‘chiuse’ nel senso che votano solo gli iscritti e di candidati alla seconda fase ne passano solo tre – nella seconda fase, quella delle cosiddette primarie aperte, quelle a cui possono partecipare tutti i cittadini, la maggioranza assoluta dei consensi (50,1% dei voti),  Ci si troverebbe, dunque, per ‘colpa’ dello Statuto, a dover procedere all’elezione del nuovo segretario nel seno della nuova Assemblea nazionale dove a votare – e a pesare – non sono i voti dei cittadini ma quelli dei mille delegati.  E lì tutti i giochi potrebbero riaprirsi. Se i candidati fossero tre, infatti (Zingaretti, Martina e, appunto, Minniti) il primo e il secondo si potrebbero accordare contro il terzo, anche se fosse arrivato primo… (esempio: Zingaretti al 40%, Martina al 10%, Minniti al 45%, altri al 5%: i delegati di Zingaretti e Martina, se sommati, batterebbero quelli del solo Minniti), ma potrebbe anche succedere l’inverso (caso più improbabile): l’alleanza di Minniti e Martina per battere Zingaretti. Ipotesi, per ora, solo futuribili. Prima, appunto, bisogna vedere quali candidati saranno in campo e chi li appoggia.

 


 

matteo_renzi_renziani_

L’ex premier ed ex leader del Pd Matteo Renzi

2. Minniti, intanto, sfoglia la margherita. Il problema, per lui, tanto per cambiare, si chiama Matteo Renzi (e la sua ombra…).

 

E qui si torna, appunto, alle indecisioni e ai ripensamenti di Minniti, uno che, invece, di suo, sembra tosto e deciso, pronto a correre. Una buona occasione, per lui, poteva essere il salotto di Vespa, dove Minniti si è seduto per presentare il suo libro (Sicurezza è libertà, Rizzoli), o l’intervista a tutto campo che gli ha fatto Corrado Formigli a Piazza Pulita o quella della Gruber a Otto e mezzo.

 

Matteo Renzi Minniti

Niente da fare

Si pensava anche che Minniti avrebbe lanciato la sua corsa subito dopo aver partecipato all’ultima edizione della Leopolda (la IX), organizzata da Matteo Renzi, ma non c’è stato verso: iniziativa troppo ‘renziana‘. A maggior ragione sbaglia chi crede che Minniti possa sciogliere le sue riserve tra venerdì 9 e sabato 10 novembre, quando la corrente dei renziani, organizzata da Lorenzo Guerini (il Forlani di Renzi) si riunirà a Salsomaggiore per un seminario interno che deve affrontare, appunto, il nodo del congresso.

Chi sarà il candidato di Renzi? Tutti pensano che sarà Minniti, ma iniziano a serpeggiare dubbi anche su questa eventualità.”E se Renzi candidasse una donna, per di più giovane?” insinua il dubbio una ex renziana toscana che conosce bene l’uomo (Renzi) e che pensa, forse, a un nome già uscito, quella della deputata umbra Anna Ascani. Ovviamente, non se ne farà nulla neppure in quel caso: a Salsomaggiore, dove pure Minniti sembra che andrà, l’ex ministro dell’Interno non lancerà la sua candidatura. Troppo ‘renziano‘, l’appuntamento, tanto per cambiare. E, certo, Minniti non vuole apparire come ‘solo’ il candidato di Renzi (un “bacio della morte” che, da tempo, ormai brucerebbe chiunque), ma di certo non può sottrarsi a lungo e in via definitiva all’abbraccio, mortale o meno che sia. Non a caso, Minniti dice: “Non sono mai stato tra i laudatori di nessuno, quindi non devo prendere le distanze da nessuno”. In più, anche Renzi teme che Minniti voglia essere, non fosse che per dimostrarlo all’esterno, troppo ‘autonomo’ da lui. Insomma, Minniti e Renzi si stanno ‘studiando’ e non essendo particolarmente ‘amici’ diffidano l’uno dell’altro: Minniti vorrebbe ‘mani libere’ su tutto (non solo sul programma, ma anche su uomini e squadra), Renzi vuole imporgli i suoi.

E dunque?

Minniti, pochi giorni fa, ha dato qualche (piccolo) segnale di cedimento. “Il tempo della riflessione sta per scadere” (se ne rende conto pure lui, in effetti…) ha detto ai microfoni di Circo Massimo, su Radio Capital, intervistato dal suo direttore, Massimo Giannini. “Se la mia disponibilità serve per garantire un percorso più unitario non potrò sottrarmi – spiegava l’ex ministro dell’Interno – Se invece dovesse servire per ulteriori frantumazioni e personalizzazioni, io non mi metterò dentro una situazione che può portare elementi non positivi al mio partito”. Poi, però, arriva il giorno della presentazione del libro, tenuta al Residence di Ripetta davanti a un impressionante parterre di gente che conta (Lucia Annunziata che presenta il libro lo rileva subito: “In questa sala ci sono più magistrati, prefetti, questori, diplomatici, vertici delle varie forze di polizia che non politici e giornalisti”, il che è, oggettivamente, una novità) e Minniti si rincuora. Insomma, molti pensano che “sì, ci siamo”.

silvio berlusconi eminenza laica

E, invece, niente, nisba, niet, nothing.

Eppure, appunto – senza dire dei relatori dal palco (il fondatore e primo segretario del Pd, Walter Veltroni, il cardinale e segretario di Stato del Vaticano Angelo Becciu e l’eminenza laica di Berlusconi, l’onnipresente e onnipotente Gianni Letta) – a volerli citare tutti, i big del sistema sicurezza e del circuito diplomatico presenti in sala per Minniti, porterebbero via pagine intere. Le vere star della serata restano, comunque, il capo della polizia, Franco Gabrielli, e il procuratore della repubblica della Capitale, Giuseppe Pignatone, accompagnato dall’aggiunto Giuseppe Prestipino. In prima fila, tra gli “osservatori” esterni al Pd si segnalava il capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta. Aveva a fianco Massimo D’Alema: pace fatta, dunque, con il suo ex delfino?

Probabile

Minniti, infatti, nel libro, non dimentica di riconoscergli di averlo lanciato sulla scena politica nazionale, prima affidandogli la segreteria nazionale organizzativa e, successivamente, volendolo come sottosegretario alla presidenza nella stagione che vide il “Leader Maximo” coprire il ruolo di premier. Di quella stagione era in sala un altro reduce, Claudio Velardi. E sempre in prima fila, c’era anche l’ex premier Paolo Gentiloni, per molti un segnale di appoggio alla possibile candidatura di Minniti a segretario nazionale. Per questo Gentiloni è arrivato in compagnia dei suoi “colonnelli” romani, primo fra tutti l’ex onorevole Beppe Fioroni? No, pare proprio di no. Gentiloni, dicono i suoi, resta fermo – etragono – ad appoggiare la candidatura di Zingaretti. Solo un gesto di cortesia, dunque. In rappresentanza dell’ultima stagione di governo dem c’era anche la ex ministra Valeria Fedeli (moglie del colonnello in prima di Minniti, Achille Passoni) e l’ex sottosegretario alla giustizia Gennaro Migliore. E Renzi? Lui non c’era ma il pattuglione renziano era presente al gran completo, guidato da due fedelissimi del calibro di Lorenzo Guerini e Francesco Bonifaci (non c’era Luca Lotti, ma la sua assenza non sembra abbia creato grandi dispiaceri a Minniti).

 

Minniti, nel corso della presentazione, però, parla molto di sicurezza e per nulla (o quasi) di candidatura al congresso, tranne una frase (“Io candidato? Fatemi fare un gradino alla volta…”) che, anche qui, vuol dire tutto e, insieme, niente. La settimana decisiva per la candidatura di Minniti, a questo punto, dovrebbe essere la prossima. Immaginando che lo farà con un’intervista (al momento, il giornale più accreditato, quello che da sempre i segretari del Pd li fa e poi li disfa, è Repubblica) pubblica, o forse con un’apparizione in un talk show, e comunque solo dopo che un’altra sfilza di nomi (amministratori locali, dirigenti di partito, personalità esterne), possibilmente lontana e diversa dal mondo renziano, ne chieda a gran voce la discesa in campo. Insomma, il passo finale, e decisivo, sembra rimandato, ma solo di un altro po’.


 

3. Martina (e Orlando) vogliono cambiare lo Statuto: salta la coincidenza tra segretario e candidato premier? No…

 

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L’ex ministro all’Agricoltura e segretario del Pd Maurizio Martina

Repubblica.it, a firma Giovanna Casadio, pubblica questo articolo, nella mattinata dell’8 novembre 2018 che mette a rumore il Pd.  Una notizia che, però, verrà nel pomeriggio prontamente smentita. Ma leggiamo prima l’articolo della Casadio preso da Repubblica.it .

“Eletto alla guida del Pd con le primarie ma non in corsa per Palazzo Chigi quando verrà il momento. La regola che valeva per Walter Veltroni, Pierluigi Bersani e Matteo Renzi, segretari eletti nei gazebo e automaticamente destinati, almeno sulla carta, a fare i premier, non riguarderà più il prossimo leader che sarà scelto nelle primarie di febbraio 2019 per cui sono in gara Nicola Zingaretti, Francesco Boccia, Matteo Richetti e, molto probabilmente, Marco Minniti e Maurizio Martina.

Era il principio su cui il Pd è stato fondato, ovvero che il segretario eletto con le primarie fosse anche il candidato premier, salvo ulteriori primarie del centrosinistra per la premiership, come quelle che volle lo stesso Bersani nel 2012 e che lo videro sfidare Renzi e Nichi Vendola e vincere. Poi andò come andò: Bersani non arrivò mai a Palazzo Chigi e si dimise da segretario dopo l’agguato dei 101 franchi tiratori a Romano Prodi lanciato sulla strada per il Quirinale.

Ma la commissione Statuto del Pd, che si riunisce oggi alle 15, segnerà la svolta dividendo il ruolo di segretario da quello di candidato premier. Svolta che sarà poi votata nella prossima Assemblea nazionale dei mille delegati che si terrò il 17 novembre e nella quale si darà il via al congresso.

L’accordo tra le varie correnti sarebbe già stato raggiunto: un’epoca è passata, il sistema elettorale maggioritario non c’è più e mantenere l’equivalenza segretario = candidato presidente del Consiglio non attrae più il Pd. Già durante la segreteria di Renzi, che è stato contemporaneamente premier, era cominciato un tam tam dentro il partito per chiedere il cambio dello Statuto, sostenendo che la sovrapposizione dei ruoli nuoceva al Pd. I due leader delle due minoranze interne, Gianni Cuperlo e Andrea Orlando, ad esempio, ne avevano fatto un punto dei loro programmi quando si presentarono alle primarie rispettivamente nel 2013 e nel 2017. Ora il doppio ruolo previsto dallo Statuto è ritenuto un po’ da tutti anacronistico, dal momento che la legge elettorale proporzionale impone alleanze post urne.

arturo parisi

Arturo Parisi, che è uno dei padri fondatori del Pd e fu l’ideatore delle primarie, ammette che “tutto è enormemente cambiato” e che le primarie per il segretario svolsero “una funzione fondativa del partito” che doveva del resto essere costruito ex novo, non aveva neppure gli iscritti. D’accordo quindi con il nuovo corso? “Se si riduce a un cambiamento – spiega Parisi – da approvare in modo affrettato in una assemblea lo considero il modo peggiore per chiudere e sancire la perdita di progettualità che ha portato il partito dalla sconfitta del 4 di dicembre di due anni fa a quella del 4 marzo scorso attraverso il ritorno al proporzionale corretto introdotto con il Rosatellum… Forse dal punto formale la procedura è difendibile, ma non si sceglie così l’assetto politico del Paese e, dentro questo, il ruolo che il partito deve svolgere. Questa è una scelta di natura costituente” afferma e conclude il professore ed ex ministro della Difesa.

Tra i cambiamenti dello Statuto che il presidente della commissione Gianni Dal Moro proporrà oggi ci sono anche la riduzione del numero dei delegati dell’Assemblea nazionale e della Direzione. L’Assemblea dei Mille potrebbe essere più leggera e ridotta fino a 500-700 componenti mentre la Direzione direzione da 120 a una sessantina di membri. Ma il criterio per cui il segretario è solo segretario cambia anche la sfida politica dei prossimi mesi per il congresso”.

gianni dal moro

Gianni Del Moro

Fin qui, la Casadio. Ecco, però, fioccare subito, a metà pomeriggio, la smentita ufficiale del Pd battuta dall’agenzia Ansa: “Niente modifiche allo statuto del Pd prima del Congresso, a partire dalla separazione tra la figura del segretario e quella del candidato premier. Lo ha deciso la Commissione statuto nella sua ultima riunione prima dell’assemblea nazionale, che eventualmente avrebbe dovuto votare le modifiche. Nelle scorse settimane – spiega l’Ansa – la Commissione statuto, in cui siedono rappresentanti di tutte le aree Dem ed è presieduta da Gianni Del Moro, si era accordato su una decina di modifiche da portare in Assemblea che le avrebbe dovute approvare. Si andava da una riduzione del numero dei membri della stessa Assemblea nazionale alle modalità di elezione dei segretari locali fino alla questione dello sdoppiamento dei ruoli di segretario e di candidato premier. Si è tuttavia deciso oggi all’unanimità che Dal Moro farà una relazione in Assemblea proponendo questi contenuti per il dibattito congressuale, in modo che ogni candidato possa farli propri in toto o in parte. Per approvare le modifiche allo statuto occorre in Assemblea una maggioranza qualificata e visto che diversi esponenti si sono dichiarati contrari, è stato deciso di evitare un voto divisivo in Assemblea. Le eventuali modifiche verranno dunque apportate dopo il congresso”.

I renziani si erano subito, e vistosamente agitati, uscendo con più dichiarazioni (Ceccanti, Parrini e altri) contrarie. Infatti, la coincidenza dei due ruoli – segretario e candidato premier – non solo è consustanziale alla ‘natura’ del Pd, ma farebbe saltare, di fatto, l’idea stessa delle primarie ‘aperte’. “Che senso avrebbero le primarie aperte – nota, infatti, il costituzionalista e deputato del Pd di fede renziana Stefano Ceccanti – se si elegge solo il segretario del partito e non anche il candidato premier? A quel punto, basterebbe fare solo le primarie degli iscritti, e basta…”. Dicono anche, i renziani, che dietro il tentato (e fallito) colpo di mano ci sarebbe l’impronta del segretario attuale, Martina, il solo che – visto che anche a Zingaretti la variazione dello Statuto non conviene – ne avrebbe avuto qualche vantaggio. Com’è, come non è, lo Statuto in vigore resterà quello solito. Resta in piedi, però, la domanda: ma Minniti quando si candida?

 


 

Questo articolo è stato scritto in forma originale per questo blog l’8 novembre 2018