Cosmopolita, ‘ma anche’ “de core”. Il nuovo Pd di Enrico Letta tra problemi strutturali e slanci innovativi

Cosmopolita, ‘ma anche’ “de core”. Il nuovo Pd di Enrico Letta tra problemi strutturali e slanci innovativi

21 Marzo 2021 0 Di Ettore Maria Colombo

Il ‘nuovo Pd’ di Enrico Letta vuole essere ‘cosmopolita’ ma anche ‘de core’, cioè riuscire a contaminare tradizione e contemporaneità. La sfida alle correnti e alle incrostazioni di 13 anni di storia è stata lanciata. Per il Pd questa è l’ultima occasione per rinnovarsi

 

Il nuovo Pd di Enrico Letta? Cosmopolita, ma anche ‘de core’

enrico letta

Enrico Letta

Metà ulivista e metà maggioritarista. Popolare, ‘ma anche’ attento ai nuovi lavori e ai nuovi lavoratori, sfruttati e non. Intriso di ‘cultura del fare’, e ‘con l’orecchio a terra’ (copyright di Pier Luigi Bersani, vecchio sodale di Letta, un mix di ‘gemelli diversi’ che, per una certa fase, funzionò).

Con una ‘cassetta degli attrezzi’ che viene ‘da lontano’ e ‘va lontano’ – ma non nel senso del Pci, bensì della migliore Dc, quella ‘tecnocratica’ e ‘migliorista’, elitaria e raffinata, che si riconosce, ancora oggi, nel pensiero e nelle intuizioni dell’ex ministro Beniamino Andreatta. ‘Ma anche’ con una attenzione – quasi spasmodica, cocciuta – ai new media, al mondo di Internet e dei social network, senza dimenticare i feticci – alcuni stracult – che hanno segnato la formazione, culturale e politica, del suo leader, e di una intera generazione: il subbuteo, e quindi il calcio (lui tifa per il Milan, ahinoi), il ‘radicamento’ in un quartiere, e non solo in una città (e qui l’anima è “divisa in due”, tra Testaccio,core de’ Roma, e il quartiere radical chic dei bobo’ dell’università Sorbonne, a Parigi), la filosofia della ‘generazione Erasmus’ (zaino in spalla e tanta curiosità per un Mondo tutto da scoprire) e la venerazione per gli ‘antichi maestri’ (Prodi, ma anche Edmondo Berselli, Andreatta e Dylan Dog…). Ecco, il ‘nuovo’ Pd di Enrico Letta sarà – o almeno vuole essere – un po’ come è lui, sospeso come un funambolo tra antichità e modernità, gusto per le novità e riconoscenza per le radici, proprie e altrui, generoso e, insieme, compassato, alto, lieve e profondo.

“La verità è sovversiva”dice l’amico di Letta Filippo Andreatta

Filippo Andreatta

Prof. Filippo Andreatta

Lo si capisce, in fondo, ascoltando le parole che uno degli amici storici di Enrico Letta, Filippo Andreatta, figlio di Beniamino e professore di Scienza della Politica all’università di Bologna, ha concesso, il giorno dell’elezione – ma è meglio dire della acclamazione – di Letta segretario, al Quotidiano Nazionale (Giorno-Nazione-Resto del Carlino). Una intervista, come altre concesse dal ‘professorino’ Andreatta, amico del ‘professorino’ Letta, che è rivelatrice di persone che seguono un metodo di lavoro sistematizzato da Weber:il lavoro intellettuale, o la scienza, come professione”.

La verità: niente di più sovversivo” - Beniamino Andreatta

La verità: niente di più sovversivo” – Beniamino Andreatta

“La verità: niente di più sovversivo” diceva e scriveva, più di un secolo fa, il fotografo surrealista Man Ray e ripeteva, con lui, non a caso, Beniamino Andreatta, che usava quella frase nei suoi manifesti elettorali insieme a una colomba, simbolo della pace, e a una pipa, oggetto che fumava con voluttà.

beniamino andreatta

Beniamino Andreatta

La frase di Andreatta sulla ‘verità’ è stata usata proprio da Letta che l’ha citata nel suo discorso politico più importante come già aveva fatto quando divenne premier, nel 2013, davanti alle Camere. Ma Letta ha citato anche Filippo. Un ex ragazzo dell’Ulivo che ha condiviso, con il suo sodale Letta, molte esperienze, politiche (l’Ulivo) e dottorali (la Scuola di Politiche che Letta ha fondato e dove Filippo insegna). Una specie di famiglia di geni della lampada, gli Andreatta: la figlia femmina, Eleonora, detta Tinny, già capo della fiction Rai, dal 2020 è andata a dirigere la fiction di Netflix.

La esperienza che ha vissuto, per tanti anni, lontano dalla politica attiva lo ha reso diverso – spiega Andreatta a Qn Enrico oggi ha la credibilità e la forza di poter dire, come già Romano Prodi, ‘se mi volete bene, altrimenti vado altrove’. Non è e non sarà un uomo per tutte le stagioni”.

Ma che tipo di Pd sarà, quello di Letta? Risponde Andreatta: “Veniamo da un Pd che, nel 2018, era destinato a perdere le elezioni, e a perderle male, ma anche a perdere la propria anima. L’idea fondativa del Pd era, invece, quella dell’Ulivo e cioè l’unione di due riformismi. Agli elettori si chiedeva di scegliere tra due poli e di farlo prima delle elezioni. Un partito che, anche nello Statuto, predicava la sua vocazione maggioritaria, vocazione che si è persa. Oggi il Pd sostiene il governo Draghi, governo nato sulla base dell’emergenza pandemica e sociale, ma abbiamo conosciuto tre governi diversi e tre maggioranze di diverso colore (gialloverde, giallorosso e, ora, giallo-verde-rosso), in quattro anni, diverse dalle coalizioni che si erano presentate nel 2018, davanti agli elettori. Ma bisognerà pur tornare, alle prossime elezioni politiche, alla scelta tra due poli alternativ e recuperare l’idea fondativa su cui nasce il Pd. O torni a vincere, contro una destra rappresentata da Lega e FdI, sovranista e anti-europea, o stai all’opposizione. E stare all’opposizione, come ha detto Letta, a un partito ‘fa bene’, ti rigenera. La democrazia governante dice e vuole che si faccia così” spiega ancora.

Alleanze e rapporti con i partiti? “Innanzitutto, c’è l’ambizione di allargare il nuovo Pd e recuperare i voti perduti: nel 2018 ne prese otto milioni contro quasi 19 milioni di voti presi dall’Unione nel 2008. Più di otto milioni di voti persi in dieci anni e andati tra astensione e altri partiti, anche non di centro-sinistra. Poi, c’è un Pd che vuole allargarsi al centro e vuole collaborare con tutti: +Europa, Azione civile, Italia Viva, i Verdi, come pure con LeU e i 5Stelle che ora saranno a guida Conte e quindi saranno ‘nuovi’ e comunque molto diversi da oggi. L’offerta del nuovo Pd per una nuova coalizione c’è, poi ognuno si prenderà la responsabilità di accettarla o meno. Ma servirà un patto di lealtà tra i contraenti del patto della nuova coalizione e servirà prima delle elezioni, non dopo” chiude Andreatta

Legge elettorale e lotta al trasformismo: proposte di sistema

legge elettorale

Legge elettorale

Fin qui, le parole di Filippo Andreatta, ma poi, nella battaglia politica quotidiana, cosa potrà fare davvero Letta? Per esempio, le due proposte più ‘sistemiche’, sul piano politico e di ingegneria costituzionale, sono fattibili? Si tratta della richiesta, sostenuta con forza da Letta, di abbandonare la ricerca di un sistema proporzionale alla ‘tedesca’ che il Pd di Zingaretti aveva, vanamente, cercato e puntare, con decisione, sul ‘ritorno’ a quello spirito ulivista (coalizionale e maggioritario) che segnò la migliore cultura politica dell’Ulivo. E, dunque, rilanciare il Mattarellum – un sistema elettorale per tre quarti maggioritario e che solo per un residuo quarto ha il recupero di seggi proporzionale, ma soprattutto basato su collegi maggioritari secchi – o, al massimo, ‘rovesciare’ l’attuale legge elettorale, il Rosatellum, aumentando di gran lunga la quota di collegi maggioritari.

E, dall’altra, contro la pratica del ‘trasformismo’ endemico e storico delle classi parlamentari, che cambiano ‘casacca’ e schieramento a frotte, senza soluzione di continuità (ad oggi sono oltre 200 i ‘cambi di casacca’ di questa legislatura…), fare leva sui regolamenti parlamentari, partendo da quello, nuovo approvato nel 2018 al Senato, affinandolo e rendendo i suoi paletti ben più stringenti degli attuali, per impedire tre degenerazioni. 1) Che i singoli parlamentari possano passare, impunemente, dal partito che li ha eletti a un altro. 2) Che venga ‘proibito’ (il che comporta, però, un serio rischio di incostituzionalità) la possibilità di dare vita a gruppi parlamentari diversi da quelli con i quali si è risultati eletti davanti agli elettori. 3) Che, infine, venga cancellato, ex abrupto, il gruppo Misto, obbligando i deputati e senatori che non vogliono iscriversi ad alcuna componente a restare nel limbo dei ‘non iscritti’, deprivati di finanziamenti, strutture e diritto di parola, come peraltro già avviene in seno al Parlamento Ue di Bruxelles. Norme choc e non facili, da un punto di vista del consenso politico, ma anche ‘sul filo’ del diritto parlamentare in quanto rischiano di cozzare contro una norma-totem della Costituzione, quell’articolo 67 che prevede l’assenza di ‘vincolo di mandato’ e, cioè, la libertà del parlamentare ‘anche’ di cambiare schieramento, bandiera e casacca…

“La geografia delle correnti? Non la so”. Il male oscuro del Pd

geografia pd

“Io la geografia delle correnti non la so”. Il male oscuro dem

Ma si pone un altro problema, non di poco conto. Quanto e come il ‘nuovo’ Pd di Letta vincerà sul ‘vecchio’? E i ‘big’ glielo lasceranno fare? Ecco, la domanda non è peregrina. I big, e le loro correnti.

Gli zingarettiani orfani di Zingaretti, ormai dimessosi, gli orlandiani di ‘Dems’ guidati dal ministro Andrea Orlando, la sinistra interna, le vecchie aree di Gianni Cuperlo e altri, ‘a sinistra’. Area dem, l’area guidata dal sempre silente – ma decisivo, nell’elezione di Letta – Dario Franceschini, al centro. Per restare nell’ambito della ‘vecchia’ maggioranza congressuale che, nel 2019, elesse Zingaretti segretario. E, invece, tra le ‘nuove’ minoranze interne, la vecchia area dell’ex ministro Maurizio Martina, oggi volato alla Fao, FiancoaFianco, ereditata dal capogruppo Graziano Delrio. Base riformista, la minoranza più corposa, dentro il Pd, capitanata dal ministro Lorenzo Guerini e da Luca Lotti. E, infine, l’area dei Giovani turchi guidati da Matteo Orfini. Questa complicata, a volte sovrastimata, super-fetata, ‘geografia’ interna che lo stesso Letta ha detto di “non” conoscere bene, o a menadito (ma anche lui aveva una sua corrente, i ‘lettiani’, scioltisi come neve al sole quando Renzi ‘cacciò’ Letta da palazzo Chigi, l’#enricostaisereno) accetterà, supinamente, i diktat del ‘salvatore della Patria’, senza fiatare, oppure presto rialzerà la testa e gli darà guai? Troppo presto per dirlo, ma una cosa è certa.

Il ‘caso Roma’ con l’improvvida auto-candidatura dell’ex ministro Roberto Gualtieri, senza che Letta ne sapesse niente, ma con l’aiuto, fattivo, di Goffredo Bettini, storico mentore di Zingaretti, come di Conte, e di alcuni ras locali dell’ex Pci-Pds-Ds-Pd (Claudio Mancini), dimostra che ne ha di strada da fare, e di polvere da mangiare, il buon Enrico. Qui “si parrà la sua nobilitade”, diceva il Sommo Poeta.

Le ‘first choice’ di Letta: i due nuovi vice Tinagli e Provenzano

Irene Tinagli

Irene Tinagli

Le prime nomine della segreteria Letta, quelle dei due vicesegretari, l’ex ministro Peppe Provenzano e la economista, ex deputata, oggi all’estero, Irene Tinagli, dicono che Letta sta ‘vincendo a metà’. La scelta della Tinagli (economista di vaglia, liberal a tutto tondo) è ‘casa Letta’, che l’ha preferita ad altre donne blasonate, ma tutte ‘di corrente’ (Pinotti, Serracchiani, Fedeli, etc.).

Giuseppe Provenzano

Giuseppe Provenzano

La scelta di Provenzano, invece, per quanto giovane e brillante sia l’ex ministro al Sud, oltre che discepolo amato (e un po’ troppo gauchiste) di Emanuele Macaluso, è un cedimento alle correnti. Il guachiste Provenzano, infatti, è della filiera di Orlando ed è stato questi a imporlo, anche se Letta “ci va d’accordo”. In fondo, Letta mantiene con Bersani un rapporto affettuoso e persino con Stefano Fassina ricambia rispetto e amicizia, ma di certo Provenzano è lontano anni luce dal ‘lettismo’.

La teoria delle alleanze del nuovo Pd. Letta torna ‘al centro’

Partito Democratico PD

Che stagione sta vivendo, oggi, il Pd?

Certo, è troppo presto, per giudicare. Gli atti della ‘era Letta’ hanno bisogno di qualche mese di tempo, almeno, per dispiegarsi nei loro effetti e per diventare fatti concreti. Come pure la scelta delle alleanze e degli ‘alleati’ con cui parlare. Un Pd che, nella testa di Letta, ritorna ‘centrale’, vuole privilegiare prima di tutti gli alleati ‘naturali’ del Pd, e dunque l’alveo del centrosinistra ‘storico’ e ‘classico’: Iv, al costo e al prezzo di ‘fare pace’ persino con Matteo Renzi, ma anche +Europa, Azione civile, ‘a destra’, LeU nella versione Art. Uno e SI, ma pure i Verdi e il Psi ‘a sinistra’. Poi, solo in una seconda fase, è previsto quello che – per Bettini come per Zingaretti – era invece l’abbraccio mortale e cioè l’incontro/confronto con i 5Stelle, ora a guida Conte. Ma è evidente che il Pd, nello schema di gioco di Letta, torna dichiaratamente ‘centrale’, polo centripeto della nuova alleanza politica di un nuovo Centrosinistra, e non un partito ‘a rimorchio’ di altri, soprattutto dei CinqueStelle. Letta, però, ha bisogno di vittorie politiche tangibili, per poter continuare a guidare, e saldamente, il suo nuovo Pd. Il governo Draghi, ovviamente, “è l’architrave” della nostra politica, ha detto Letta (per Zingaretti era un obtorto collo), ma deve essere aiutato a combattere, e sconfiggere, il Covid come la crisi economica e sociale che attanaglia il Paese. Le riforme che ha in mente Letta – istituzionali, sociali, etiche, come lo ius soli – devono trovare eco, e voti, in Parlamento. Il Pd deve vincere, e non solo ‘non perdere’ le comunali e le importanti amministrative di ottobre, quando si voterà a Milano, Torino, Bologna, Napoli e, soprattutto, a Roma, con candidature credibili e autorevoli, prima che ‘larghe’. Per dirla con un francese, caro a Enrico Letta, e non solo, il generale De Gaulle, vaste programme. Non sarà facile, certo, ma ‘se non ora, quando?’ e poi, ‘se non Letta chi?’.

Ma ecco il ‘Bignami’ delle puntate precedenti di una storia tormentata e tortuosa, quella del Pd.

“L’amalgama mal riuscito”: il Pd o la fusione fredda tra Ds e Dl

Walter Veltroni

Walter Veltroni

Veltroni, bonariamente, parlò definì il Pd “nel nome, il suo destino” (cioè un partito ‘democratico’, all’americana, versione kennediana) mentre D’Alema, erede di una solida tradizione comunista, lo liquidò con l’epiteto di “amalgama mal riuscito”. Del resto, anche i prodiani più coriacei (il professor Arturo Parisi, Giulio Santagata e, alla lontana, lo stesso prof. Romano Prodi) presto si allontanarono e si disamorarono della ‘creatura’ non ritenendola più affine, o addirittura disconoscendone l’evoluzione, rispetto al vecchio sogno dell’Ulivo, la coalizione fondata da Prodi e che vinse le elezioni del 1996, ma anche rispetto a un metodo, quello delle primarie, che gli ulivisti volevano il più possibile ‘aperte’ (a tutti gli elettori, cioè, senza un primo step obbligato tra gli iscritti) mentre i ‘partitisti’ (che allignavano non solo tra gli ex Ds, come Fassino e D’Alema, ma anche tra gli ex Margherita, da Marini a Rutelli) volevano invece ‘chiuse’ e ‘rigide’, quindi regolate e controllate da un filtro imposto dall’alto. Vinsero, ovviamente, questi ultimi e lo stesso Padre nobile dell’Ulivo (e del Pd), Romano Prodi, come poi disse con espressione felice, “piazzò la sua tenda ‘fuori’ dal Pd”…

Storia del partito che si mangia tutti i suoi leader. Un ‘Bignami’…

bignami pd

Un bignami del pd

In ogni caso, e cioè al di là dei giudizi di ognuno, fondato nell’ormai lontano 2007, il Pd nasce proprio, e questa ormai è storia, dalla ‘fusione fredda’ di due partiti, i Ds e i Dl. I Ds erano nati nel 1998 sulle ceneri del Pds, a sua volta, ‘erede’ del Pci, sciolto nel 1991, ultimo segretario Piero Fassino. I Dl-la Margherita era nata nel 2002 sulle ceneri di un’altra fusione a sua volta ‘fredda’, quella tra il PPI di Castagnetti e i Democratici-l’Asinello di Prodi e Parisi più una serie di piccoli partiti minori (RI di Dini, il Pri, etc.).

Si sciolsero entrambi, Ds e Dl per festeggiare il lieto evento, e cioè per confluire nel Pd. Primo segretario eletto – con il metodo delle primarie – ne fu l’ex sindaco di Roma, nonché ex segretario del Pds-Ds, Walter Veltroni, che poi prestò abbandonò la nave, appena due anni dopo, nel 2009. Ma il Pd ha conosciuto, nella sua storia, più dimissioni di segretari, di big a vario titolo, abbandoni e scissioni di molti altri partiti. Per dirne una, il Pd ha visto alternarsi, alla sua guida, ben nove segretari, in appena tredici anni di vita. Di questi, quattro sono stati eletti con le primarie: Veltroni nel 2009, Bersani nel 2013, Renzi, confermato per ben due volte, nel 2013 e nel 2017, e infine Zingaretti, eletto nel 2019. Ma tutti e quattro si sono dimessi tutti anzitempo, rispetto alla scadenza naturale del mandato (quattro anni). Per dire, Zingaretti è stato eletto segretario del Pd a marzo del 2019, con il 66% dei voti raccolti alle primarie, quindi il mandato del segretario scadeva non prima del marzo 2022. Poi, vi sono stati tre segretari ‘reggenti’ (eletti, cioè, in seno all’Assemblea nazionale e non consacrati dalle primarie): Franceschini, dopo Veltroni, nel 2009; Epifani, dopo Bersani, nel 2013; Martina, dopo Renzi, nel 2019. Infine, vi è stato pure il caso, un unicuum, del segretario pro tempore quando, nel 2017 il presidente dell’Assemblea nazionale, Matteo Orfini (carica impropriamente definita di ‘presidente del partito’ che invece, nello Statuto, non esiste) che ha ‘retto’ il Pd nel tempo necessario a Matteo Renzi di dimettersi da segretario, oltre che da premier, e ricandidarsi, per vincere le primarie di nuovo sempre nel corso del 2017.

Un’opera d’ingegno e insieme un inutile barocchismo, lo Statuto

salvatore vassallo e1615472333606

Prof. Salvatore Vassallo

Insomma, una storia molto intricata, e contorta, quella del Pd, per di più ‘arricchito’ da uno Statuto – opera di due costituzionalisti d’ingegno, Salvatore Vassallo (politologo) e Stefano Ceccanti, oggi deputato dem, che hanno voluto ricalcare lo Statuto del Pd sulla base di quello di quello degli Stati, o meglio del rapporto tra premier e Parlamento in vigore nelle principali democrazie occidentali. E non, per dire, sulla scia dei partiti della socialdemocrazia europea, dove pure si vota con le primarie (il Psf, il Psoe, la Spd).

stefano ceccanti

Stefano Ceccanti

Per capirsi, da un lato c’è la doppia fonte di legittimazione, prevista dallo Statuto, che prevede un ‘doppio giro’ di candidature: il primo interno solo agli iscritti ai circoli del Pd (le care, vecchie, sezioni), che possono votare solo la tessera dell’anno corrente valida, e un secondo giro, quello delle primarie ‘aperte’, aperto, appunto, a iscritti ed elettori. I quali possono votare versano un obolo di pochi euro (due) e firmando la sottoscrizione di una ‘carta di intenti’ con i valori del Pd. Ma non basta. Con un inutile surplus di barocchismo di ingegneria costituzionale, i fondatori del Pd hanno previsto anche che il ‘rapporto fiduciario’ che si instaura tra segretario eletto (con le primarie, dal ‘popolo’) e Assemblea nazionale (mille delegati eletti sulla base di liste di collegati collegate ai candidati eletti alle primarie) preveda che l’Assemblea possa ‘sfiduciare’ il segretario, previa la raccolta di un tot numero di firme (più della metà dei componenti) ed eleggerne un altro sulla base di sue maggioranze che si formano, ovviamente, in seno alle tante (troppe) correnti, o anime, o aree, che compongono il Pd.

Il segretario può, e deve, dimettersi davanti all’Assemblea, ma il nuovo segretario eletto da questa non è detto che debba per forza dimettersi a sua volta e dar luogo a primarie ma può, se lo vuole e trova una maggioranza in Assemblea, durare in carica per il resto del mandato previsto in Statuto. Insomma, un pasticcio. Utile, però, almeno in questo caso.

I pasticci, a volte, escono persino col buco… L’elezione di Letta

ciambella

I pasticci, a volte, escono pure col buco… L’elezione di Letta

Infatti, è grazie a questo ‘pasticcio’ che è stato eletto Letta. In seno all’Assemblea nazionale, senza passare per ‘il via’ (le primarie, infatti Parisi ha contestato tale punto) e senza dover rispettare una ‘data di scadenza’ che non sia il limite naturale del mandato di… Zingaretti, e cioè il 2022, quando il congresso, in ogni caso, si dovrà tenere. Letta, certo, potrebbe dimettersi (dimissioni ‘tecniche’) e indirlo comunque un congresso anticipato, di certo non nel corso di quest’anno, ma nel corso del 2022 sì. E non è detto che non lo faccia per ripresentarsi candidato e, dunque, ‘ri-legittimarsi’ davanti alla fonte ‘primaria’ di legittimazione della vita interna democrat, le primarie, e non solo, come è successo, dentro il parlamentino dem.  

Breve e asettica cronistoria dell’elezione di Letta a segretario

Enrico Letta

Segretario Enrico Letta PD

E’ dunque Enrico Letta il nuovo segretario del Pd. E’ stato eletto, in seno al massimo organo rappresentativo dei dem, l’Assemblea Nazionale, lo scorso 14 marzo, come si sa. Si è trattato, peraltro, non della prima assemblea nazionale dem in epoca Covid, ma della prima in totale ‘streaming’: i quasi mille delegati (1021 per la precisione: mille eletti all’ultimo congresso del Pd, quello del 2019, e 21 segretari regionali) hanno votato con voto elettronico simultaneo, esattamente come avviene, di norma, nelle sedute del Parlamento. Un altro segno dei tempi, oltre che dell’epoca della pandemia. Su 866 delegati presenti, Letta ha raccolto un voto che – ai tempi del Pci – sarebbe stato definito ‘bulgaro’: 860 i sì, quattro gli astenuti e due i ‘no’. Impossibile sapere i loro nomi: il voto sui nomi, come già in Parlamento, è segreto. Insomma, un voto unanime, ma – a dirla tutto – farisaico. Le tante – troppe – correnti dem hanno elevato a Letta (tutte) voti e preci affinché accettasse di ‘salvare’ il partito. Infatti, il segretario precedente, Nicola Zingaretti, si era dimesso all’improvviso, e senza comunicarlo a nessun big – tutti lo hanno scoperto dalle agenzie di stampa – il 4 marzo. Dimissioni annunciate con un post su Facebook dal tenore ‘vittimistico’ e con queste parole: “Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid. […] Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità. Nelle prossime ore scriverò alla Presidente del partito per dimettermi formalmente. L’Assemblea Nazionale (del 13 e 14 marzo, ndr.) farà le scelte più opportune e utili”. Formalizzate, finalmente, le dimissioni con una lettera alla presidente del partito, Valentina Cuppi, il giorno dopo, il Pd era caduto in uno stato di prostrazione e di timor panico. Sembrava, infatti, ci si avviasse a un congresso anticipato che era facile previsione pensare sarebbe stato drammatico, oltre che assurdo, data l’infuriare della pandemia da Covid.

Il congresso anticipato che, per fortuna, non c’è più stato…

bonaccini stefano

Stefano Bonaccini

Si profilavano, peraltro, già uno scontro all’arma bianca tra l’eterno sfidante di area riformista, il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, sostenuto da molti sindaci e amministratori locali dem e dalla minoranza interna e più agguerrita, quella di ‘Base riformista’, capeggiata dal ministro alla Difesa, Lorenzo Guerini, e dall’ex braccio sinistro di Matteo Renzi, Luca Lotti, e un ‘campione’ della sinistra interna che era già identificato in un altro ministro del governo Draghi, stavolta al Lavoro, Andrea Orlando, in qualità di erede degli zingarettiani e della sinistra interna del partito, oltre che del solito Bettini.

lotti guerini

Lotti Guerini Area Riformista

Uno scontro che si sarebbe rivelato fratricida e, forse, persino esiziale, per la vita stessa e il futuro del Pd. L’arrivo di Letta, richiamato in servizio dal suo esilio parigino, ha impedito che il Pd si scontrasse al suo interno e naufragasse sugli scogli di uno scontro interno che, da 13 anni, è infinito ma se Letta basterà a ‘fermare’ la spinta alla dissoluzione del Pd è anche questo davvero ancora presto per dirlo…

Nb: questo articolo è stato pubblicato, in forma più succinta, il 18 marzo sul sito “Reset on line’ che trovi qui