Pacchetto Pd 14. Calenda e le alleanze fanno litigare i tre candidati alla segreteria del Pd

Pacchetto Pd 14. Calenda e le alleanze fanno litigare i tre candidati alla segreteria del Pd

4 Febbraio 2019 0 Di Ettore Maria Colombo

Sommario

I tre candidati alla segreteria del Pd ‘fingono’ di essere d’accordo su tutto (manifesto europeista, alleanze, etc.) ma non lo sono su… nulla. La sfida, alle primarie aperte, sarà all’ultimo voto

 

convenzione pd

Convenzione Nazionale del Pd

 

La – stucchevole – retorica ‘europeista’ della Convention dem

 

Bandiere dell’Europa sul palco, assai più di quelle italiane. L’Inno alla Gioia di Beethoven (inno europeo) suonato prima dell’Inno di Mameli e sembra quasi con maggior vigore. Lo spitzenkandidat del PSE alle elezioni europee del prossimo 26 maggio, Frans Timmermans, che parla dal palco, peraltro in un perfetto italiano (tifa anche per la Roma, se è per questo), in un (lunghissimo e noiosissimo) pre-dibattito. Sui destini dell’Unione europea, il dibattito, ovviamente. E – ma in questo caso sul piano politico e non iconografico – ‘manifesti’ sull’Europa sparati a raffica, come piovesse.

 

Franciscus Cornelis Gerardus Maria Frans Timmermans è un politico olandese Primo vicepresidente della Commissione europea

Franciscus Cornelis Gerardus Maria “Frans” Timmermans è un politico olandese, Primo vicepresidente della Commissione europea

 

Sulla Convenzione nazionale del Pd che si è tenuta ieri all’hotel Ergife di Roma incombeva, già da giorni, il ‘Manifesto europeista’ lanciato dall’ex ministro Carlo Calenda, “#SiamoEuropei”. Corredato da ben 160 mila firme – anche se Calenda stesso riconosce che “il manifesto ‘Salvini presidente’ ha raccolto 150 mila firme in tre giorni, noi ci abbiamo messo, e con fatica, due settimane per averne altrettante..” – l’iniziativa di Calenda ha creato il caos dentro il partito e, soprattutto, tra i suoi maggiorenti. Al netto della (certa) auto-candidatura di Calenda, che pretende pure un posto in prima fila, cioè da capolista (preferibilmente nel Nord Est, ma va bene anche il Nord Ovest, di certo non al Centro né al Sud, dove il Pd rischia assai – il guaio è che il Pd ancora non sa come rispondere alle domande che lo stesso Calenda pone al ‘suo’ partito.

 

Tessera PD

 

Calenda, peraltro, anche se ne bombarda tutti i giorni il quartier generale, risulta iscritto al Pd (non ha votato nei circoli, ma promette che andrà ai gazebo, ma non per votare alle primarie aperte, il 3 marzo, bontà sua, ma per lanciare il suo Manifesto e, come si usa dire, presidiare il territorio), una tessera a cui – dice ora – “non voglio rinunciare perché sarei pazzo se facessi una lista fuori dal Pd per poi allearmi con il Pd!”. Il che è anche vero, ma soprattutto indica che Calenda è molto furbo: presentarsi fuori dal Pd, anche se con una lista collegata, lo farebbe rischiare di non prendere il 4%, la soglia di sbarramento fissata per le europee (il sistema elettorale è proporzionale con le preferenze e neppure un capolista è sicuro dell’elezione, ma sotto il 4% non passa nessuno).

Un rischio che l’ex ministro non può correre. A tal punto che pure sua madre, la regista Cristina Comencini, che prima sembrava non volesse aiutarlo – “A me non mi vota neanche mia madre”, si lamentava lui – ora invece ha deciso di ‘scendere in campo’ per il figlio, tanto che alla presentazione del suo manifesto – che si è tenuta sabato scorso all’auditorium di viale Rieti a Roma – c’era e seduta in prima fila, lui si è commossa citandola, lei è uscita dal consueto riserbo e ha rilasciato interviste per dire che ‘il suo ragazzo’ va sostenuto.

 

Il manifesto Calenda agita il Pd. Ennesimo giorno di passione

 

carlo calenda

Carlo Calenda

Ma il Pd si vuole davvero ‘alleare’ – si fa per dire – con Calenda e con la sua lista?

 

Le risposte, tanto per cambiare, vedono in disaccordo i tre candidati alla segreteria dem che, dopo essere stati selezionati alle primarie tra gli iscritti (tre i promossi e tre gli esclusi: Boccia, Corallo e Saladino) si fronteggeranno alle primarie aperte: Zingaretti appare molto freddo, anzi: gelido, Martina è a dir poco entusiasta, dell’idea calendiana, mentre Giachetti, da buon renziano (Renzi e Calenda, quando erano insieme al governo, litigavano un giorno sì e l’altro pure), è assai diffidente. Senza dire del fatto che l’iniziativa di Calenda proprio al x mentore di Giachetti, l’ex premier Renzi, toglie spazio, casomai dovesse davvero volerlo fondare lui, un partito o una lista, perché occupa proprio quel ‘centro’ liberale e riformista su cui Renzi ha messo gli occhi e le antenne da tempo: pur non essendoci ancora deciso al grande passo, i vari Scalfarotto e Gozi con i loro comitati civici – che, per ora, sono un partito solo in nuce – proprio a quello stesso spazio politico, infatti, mirano.

E così, ieri, a sorpresa, ecco uscire un altro ‘contro-manifesto’ – sempre super-europeista, si capisce – proprio all’Ergife: viene proposto ai vari candidati al congresso dai 26 europarlamentari dem uscenti. Segue il turbinio di polemiche su chi ha avuto l’idea per primo e su chi vuole ‘fregare’ l’altro. Zingaretti è accusato da Calenda – che si catapulta, non previsto, all’Ergife, e prende anche la parola, piuttosto contrariato – di aver sobillato, via Goffredo Bettini, la raccolta di firme e, dunque, di aver proposto una sorta di ‘contro-manifesto’ per togliere spazio e ragioni proprio a lui, Calenda.

 

Goffredo Bettini

Goffredo Bettini

Seguono vicendevoli rassicurazioni e una (finta) tregua, nel senso che, alla fine, tutti e tre i candidati – compreso Zingaretti – assicurano che il manifesto di Calenda sarà una ‘base di discussione’ per tutti.

Eppure, non ci fosse stata la gara sul tasso di ‘europeismo’, la Convenzione nazionale del Pd sarebbe stata di una noia mortale. I tre contendenti alla carica si punzecchiano, ma senza fare nomi. Martina propone una mozione di sfiducia a Salvini e sottolinea che “io non attacco i governi del Pd” (sottinteso: Zingaretti sì). Giachetti urla “Mai con chi ci ha distrutto!”, cioè Mdp-Leu (sottinteso: Zingaretti ci si vuole alleare). Zingaretti ribatte: “Trovo umiliante e mi offende dover dire che non voglio alleanze con i 5Stelle. Chi mi accusa, imparasse a sconfiggerli!” (sottinteso: gli altri due). Insomma, la giornata che dovrebbe essere di ‘unità’ tra i pretendenti al trono (trono, peraltro, ormai nella polvere) se ne va tra i soliti veleni, le solite accuse tra candidati e le solite claque delle diverse tifoserie portate in massa e che, ormai, suonano patetiche, oltre che stucchevoli.

Eppure, Calenda è in campo, ormai anche da un po’, e al Pd potrebbe stare anche bene, perché il ‘campo’ del Pd, così, almeno un po’ si allarga (verso il ‘centro’ del mercato politico, di certo non verso la sua ‘sinistra’, ma questo è altro problema). Calenda, però, lancia diktat sotto forma di proclami. Di fatto, vuole ‘comandare’. E questo, ovviamente, i big – o presunti tali – del Nazareno non lo possono tollerare. E dunque la domanda diventa, parafrasando la nota richiesta di Stalin ai suoi generali sul Papa, “ma quante divisioni ha questo Calenda?”. Ecco, non si capisce bene.

Tanta ottima stampa, molto e spasmodico uso di Twitter (Calenda risponde ‘personalmente’ a tutti da solo, non ha uno staff che gli cura i social, almeno così dice), ma i voti veri sono un’altra cosa. E poi, visto che nel Pd usa – da sempre – la strategia delle alleanze, con chi si dovrebbe alleare il Pd, in vista delle Europee, oltre che con Calenda, che – più che un ‘alleato’ – è già, di fatto, un ‘candidato’ del Pd medesimo (cioè uno a cui gli iscritti ed elettori dem dovranno portare  i loro voti)?

 

Il Pd cerca alleati in vista delle Europee, ma per ora non li trova

 

Verdi

Il Logo dei Verdi

Ecco, non si capisce. Ci sarebbero i Verdi, per dire. Hanno nominato due nuovi giovani portavoce, ma non vogliono andare col Pd, gli preferiscono una lista ‘europeista’, sì, ma ambientalista e di stampo liberale. Ci sarebbe un nuovo partito, ‘Più Europa’. Ha eletto segretario, al congresso, Benedetto Della Vedova, ma non si vuole alleare con il Pd, casomai proprio con i Verdi e altri soggetti politici centristi e liberali. 

Ci sarebbe Il nuovo soggetto politico ‘Italia in comune’, fondato dal sindaco di Parma, Federico Pizzarotti (ex M5S, ma ormai un lustro fa), e animato da un ex prodiano, oggi deputato iscritto al gruppo Misto (eletto, si capisce, dal Pd in un collegio blindato, alle ultime elezioni politiche), Serse Soverini. Ma anche ‘Italia in Comune’ potrebbe cercare la strada dell’alleanza ‘lib-lab’ di centro con Verdi e ‘Più Europa’, anche se restano scarse le possibilità di superare, sia pure mettendosi insieme in tre, il 4%. Resterebbe la sinistra radicale che, alle ultime politiche, si è presentata come LeU, ma qui il problema è dentro il Pd. Infatti, con LeU, o meglio con una parte di essa, Mdp, si vuole alleare, ad oggi, solo Zingaretti.

 

Della Vedova

Nella foto Benedetto Della Vedova Photo Fabio Cimaglia

 

Anzi, più che Zingaretti in persona – il quale resta cauto per non essere accusato di voler riesumare ‘la Ditta’ – la propone, un’alleanza con Mdp, il suo colonnello, Massimiliano Smeriglio, che lo dice a ogni intervista. Segue polemica degli altri candidati che urlano ‘avete visto?! Zingaretti vuole riesumare la Ditta!’. Segue smentita di Zinga, segue nuova polemica, poi parla D’Alema e ci mette il carico da undici, Zingaretti prende le distanze, etc. Va avanti così da mesi. E se, forse, Smeriglio – e,  ma è come chiedere l’impossibile – D’Alema dovrebbero smettere di dare interviste, resta il punto: Zingaretti pensa a un dialogo (serio) solo con ‘alcuni’ esponenti e gruppi della sinistra radicale, ma non può dirlo (e tantomeno farlo) prima di aver vinto il congresso e di essere proclamato segretario.

 

massimo dalema

Massimo D’Alema

 

Peraltro, come si sa, anche quel fronte, quello della sinistra-sinistra eletta con LeU, è entrato in forte filbrillazione e sommovimento interno. La ex presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha fondato una sua associazione, ‘Futura’, dice di voler votare alle primarie e annuncia di voler votare Zingaretti. Ma qui c’è sempre un altro, di un’altra mozione, che salta su e dice: ‘Alt! La Boldrini non può votare alle primarie! E’ iscritta al gruppo di LeU!’ Ma le primarie non sono, appunto, ‘aperte’? Non basta, come dice lo Statuto del Pd, riconoscersi nei ‘valori’ del Pd e del centrosinistra per votare? La povera Boldrini cosa dovrebbe rinnegare? Non si capisce.

 

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L’ex presidente della Camera, Laura Boldrini

 

Zingaretti pensa, più che a Leu, pensa solo al ‘lato’ Mdp di Bersani e Speranza, con dietro D’Alema. Infatti, l’ala che fa capo a Pietro Grasso e a Sinistra italiana di Nicola Fratoianni ha praticamente già rotto il patto elettorale che diede vita a LeU e se ne andrà, alle Europee, in un’altra lista – o ‘listina’ – di ‘sinistra-sinistra’ lanciata da Luigi De Magistris, il sindaco descamisado di Napoli, quel che resta del Prc e di Pap (Potere al Popolo) e qualche altro rebelde e radical italico, anche se si dubita che questo raggruppamento, una sorta di Syrizia ‘alla carbonara’ possa realmente superare il 4%.

Roberto Speranza Mdp

Roberto Speranza durante la presentazione del simbolo del Movimento democratico e progressista (Mdp)

 

Quindi, resterebbe Mdp, ma per ora non si può dire e, tanto meno, fare che Mdp entri in coalizione con il Pd (senza, però, Mdp è di fatto destinata all’estinzione da sola) e bisogna aspettare, almeno, che Zingaretti vinca il congresso e diventi segretario (magari proprio con i voti di un po’ di militanti di Mdp che, zitti zitti, andranno a votare, alle primarie) per aprire una prospettiva di collaborazione con il Pd. Anche perché, se vincesse Martina, e a maggior ragione se vincesse Giachetti – per quanto la possibilità sia irrealistica – quelli di Mdp sconteranno la loro condanna – e, forse, la loro estinzione – fuori dal Pd.

 

Un brutto spettacolo. La Convenzione nazionale dem di ieri

 

convenzione nazionale pd

 

Insomma, alla fine della fiera, il Pd, ad oggi, non ha ancora trovato veri alleati. Tanto vale, dunque, concentrarsi – e scannarsi – all’interno. Certo, l’assenza dei ‘veri’ big si nota, e pesa eccome. Renzi, ovviamente, non si fa vedere, la Boschi neppure, Gentiloni è negli States, Veltroni è in giro a scrivere articoli per il Corsera (e/o, forse, a pensare a un nuovo film), Enrico Letta è in giro a promuovere il suo nuovo libro, Romano Prodi se ne guarda bene, dal farsi vedere (anche se, a modo suo, cioè invitandolo a pranzo a Bologna, a mangiare i ‘tortelli’, e facendo uscire la notizia, si è schierato con Zingaretti per la gioia di ‘Zinga’, ovviamente), ma insomma: non c’è manco Andrea Orlando, che diamine.

 

E così, la ‘giornata uggiosa’ dei dem serve solo a certificare le esatte percentuali ottenute dai sei candidati che si sono presentati al ‘primo turno’, il voto tra gli iscritti, e a decretare i primi tre (Zingaretti, Martina e Giachetti) che andranno al ‘secondo turno’, le primarie aperte, perché gli ultimi tre (Boccia, Corallo e Saladino) restano, invece, a casa, tranne il ‘contentino’ di aver parlato ieri, per godere di quei ‘cinque minuti di celebrità’ che, giustamente, non si negano a nessuno.

Molto fastidiosa, invece, alla Convenzione nazionale di ieri, all’hotel Ergife di Roma, la claque organizzata dei vari pretendenti al trono: particolarmente rumorosa e agitata quella dei supporter di Giachetti, ritmata al ritmo di ‘unità-unità’ quella di Martina e molto ‘calda’ anche quella per ‘Zinga’. Un segnale, in ogni caso, quello delle claque, di certo non spontanee, che indica quanto poco i tre candidati alla segreteria credano in loro stessi e quanto abbiano bisogno di supporter ‘organizzati’.  

 

Zingaretti Martina Giachetti

Zingaretti Martina Giachetti

 

A sfidarsi saranno, dunque, Nicola Zingaretti (47,4%, 88.918 voti), Maurizio Martina (36,10%, 67.749 voti) e Roberto Giachetti (11,13%, 20.887 voti). Notato che, almeno nel voto tra gli iscritti, anche sommando i voti assoluti di Martina e Giachetti, Zingaretti resta comunque primo, va sottolineato il dato – assai negativo – della partecipazione al voto. Infatti, i votanti sono stati 189.023, il 50,43% degli iscritti (sono 385.115, gli iscritti, ma hanno votato in 374.786 perché in cinque province, per vari motivi, commissariamenti e altri guai, non si è votato). In pratica, ha votato un tesserato dem su due, assai pochi, e pochi saranno, forse, pure il 3 marzo. Un milione, si spera, come minimo, ma i candidati confidano, ovviamente, di portarne al voto almeno un milione e mezzo.

Tra gli esclusi, resta sul taccuino che Boccia invita i suoi 7 mila votanti a confluire su Zingaretti, la Saladino ‘endorsa’ Martina, invece Corallo se la prende un po’ con tutti e non dice per chi voterà.

 

Nicola Piepoli

Nicola Piepoli sondaggista

 

Sul piano dei sondaggi è Nicola Piepoli il primo sondaggista a sbilanciarsi: sostiene che Zingaretti vincerà le primarie del Pd, il 3 marzo, ma poco sopra il 51% dei voti, appena sufficiente per evitare che il nuovo segretario venga deciso in Assemblea. Martina arriverebbe secondo con il 40% dei consensi e terzo, ma molto lontano, Giachetti, fermo al 9%. Ai gazebo, secondo Piepoli, andrà un numero relativamente basso di elettori del Pd. La stima sull’affluenza non va oltre un milione di persone, per Piepoli. Nel Pd fanno gli scongiuri perché, appunto, per poter sostenere che il voto non è stato un flop bisognerebbe portarne ai gazebo almeno un milione e mezzo di cittadini. L’ultima volta, infatti, quando le primarie le vinse Renzi, e dopo la sconfitta al referendum, a votare andarono in 1 milione e 800 mila. Certo, l’avversario era Orlando, ma il confronto, stavolta, sarebbe davvero impietoso. Insomma, ‘devono’ essere almeno un milione e mezzo, ad andare ai gazebo, e così sarà, nel senso che è probabile che il Nazareno gonfierà un po’ la partecipazione per ‘arrivare’ a quel dato.

 

La partita vera, quella dei gazebo, inizia adesso

 

gazebo del PD

I Gazebo del PD

La partita vera, quella delle primarie aperte, in ogni caso inizia solo adesso e andrà avanti fino al giorno del voto. Zingaretti, come si è detto, incassa il sostegno di Boccia, il cui 3% tra gli iscritti (7500 voti in termini assoluti) lo spinge, di fatto, già oltre il 51%, mentre con Martina si schiera l’unica donna candidata, Maria Saladino (0,7%). Il rischio che la campagna si avveleni rimane forte, soprattutto sul tema della discontinuità rispetto al renzismo, vero Moloch da abbattere, per molti. 

E così, più che la vittoria finale, il tema sul tavolo rimane l’unità del Pd, soprattutto dopo il passaggio decisivo delle elezioni europee: resterà un partito unito o qualcuno – Giachetti, per dirne uno, visto che lo ha già minacciato – se ne andrà ‘con il pallone’ soprattutto se un altro che vincesse (Zingaretti, per dirne un altro) volesse rifare ‘la Ditta’, reimbarcando gli ex ‘compagni’ di Mdp?

Peraltro, la Convenzione Nazionale è un organismo inutile: dura un giorno, non prende nessuna decisione e si scioglie subito dopo. Si tratta di uno dei residui del lungo e barocco meccanismo congressuale del Pd, nato ai tempi di Veltroni per cercare di conciliare i fautori del “partito liquido”, raccolti attorno al segretario di allora, e quelli del “partito solido”, cioè gli ex diessini dalemiani (oggi in buona parte fuori dal partito) e i popolari di Franco Marini. Quest’ultima area voleva riaffermare l’importanza del voto degli iscritti a scapito di quello degli elettori delle primarie, epicentro del veltronismo di allora: così ci s’inventò il congresso in due tempi, prima i circoli e poi i gazebo. Senza dire – ma conviene ribadirlo – del terzo, e definitivo, step. Infatti, se nessuno dei tre candidati dovesse raccogliere il 50,1% dei consensi alle primarie aperte (in realtà si tratta di ottenere 501 delegati su 1000 perché l’elezione del segretario del Pd è e resta un’elezione ‘indiretta’), la palla passerà all’Assemblea nazionale che dovrà decidere, con il voto dei suoi mille delegati, chi diventerà segretario. E, lì dentro, potrebbe succedere davvero di tutto, con il voto dei rappresentanti delle due mozioni arrivate seconda e terza (quelli di Martina e Giachetti, ad esempio) che si sommano e confluiscono, nel voto, eleggendo uno dei due (o, anche, paradossalmente, un terzo…), a scapito del primo arrivato alle primarie (Zingaretti, ad esempio), ma che, dentro l’Assemblea, detiene solo la maggioranza relativa dei delegati e no, appunto, quella assoluta. Sarebbe il caos, ovviamente, e il nuovo segretario ne uscirebbe, di fatto, delegittimato, ma tant’è: ‘si può fare’. 

Ecco perché, in ogni caso, è importante tenere sempre bene a mente lo Statuto del Pd. In base a questo, al termine della prima fase, che si è appunto già conclusa, i delegati degli iscritti – eletti a livello provinciale – hanno partecipato alla Convenzione nazionale che serve a ufficializzare il passaggio dei tre candidati a segretario più votati nei circoli alla fase decisiva delle primarie aperteSono stati, dunque, mille i delegati arrivati nella Capitale, distribuiti sulla base delle percentuali ottenute dai singoli candidati a livello locale e suddivisi tra le varie regioni secondo due criteri non banali: il numero dei voti presi dal Pd alle ultime elezioni politiche, quindi quelli del 2018, e la media degli iscritti negli anni 2016-2017. Le regioni più rappresentate sono Lombardia (129 delegati), Emilia-Romagna (111) e Toscana (107), seguite da Lazio (90), Campania (78), Puglia e Sicilia (60).  Un dato importante, questo, perché vuol dire, tradotto in soldoni, che per vincere alle primarie conviene racimolare più voti nelle regioni non solo più popolose, ma anche in quelle dove il Pd ha preso più voti. In sostanza, vincere in Lombardia, Emilia e Toscana è più importante che vincere, ovviamente, nelle regioni più piccole, ma anche di chi vinca in regioni popolose ma dove il Pd ha preso pochi voti come, ad esempio, quelle del Mezzogiorno. Da segnalare, infine, anche che 31 delegati, infine, sono arrivati dall’estero. E’ stato, dunque, tutto davvero inutile? Non proprio.

Innanzitutto perché gli interventi dei tre candidati nella Convenzione Nazionale hanno segnato, anche ufficialmente, l’inizio della campagna per le primarie. E poi c’è un altro aspetto: i maggiorenti locali delle diverse mozioni si sono incontrati per la prima volta de visu tra di loro e con i loro rispettivi candidati. Ora toccherà anche a loro di mettersi ‘le gambe in spalla e pedalare’. Perché va bene le primarie ‘aperte’, ma alla fine – e soprattutto con un numero di votanti che si preannuncia basso – saranno i ‘capi bastone’ locali e i ‘signori delle tessere’ a decidere chi vincerà e quanto. Oltre agli elettori democrat (iscritti, militanti, simpatizzanti) ‘veri’, si capisce .Perché quelli, in fondo, gli elettori ‘veri’, ancora ci sono. Sempre meno, ma ci sono.


NB: Questo articolo è stato pubblicato, in forma molto più succinta, sul Quotidiano Nazionale del 4 febbraio 2019