Regioni rosse. Salvini prepara l’assalto finale, il Pd prova a resistere, ma è preda delle faide interne

Regioni rosse. Salvini prepara l’assalto finale, il Pd prova a resistere, ma è preda delle faide interne

13 Giugno 2019 0 Di Ettore Maria Colombo

Il retroscena. I renziani puntano a indebolire Zingaretti

 

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Matteo Renzi con Nicola Zingaretti: amici o nemici?

 

“Se non andiamo al voto anticipato e Zingaretti, dopo che avrà perso sicuramente l’Umbria e la Calabria, forse le Marche, perderà anche la Toscana e l’Emilia-Romagna, si può considerare conclusa la segreteria Zingaretti…”. La battuta è di un (ex) colonnello renziano e, quindi, va presa con il beneficio del dubbio o del (suo) interesse e di certo siamo alle diatribe interne, o ‘camarille’, del mondo dem. Ma la battuta, per quanto malevola, ha un suo fondamento.

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Il premier Giuseppe Conte

 

Infatti, il rischio delle elezioni anticipate è quasi fugato (“quasi” perché, in questi giorni, si sta come ‘chiudendo l’aria’: Salvini da una parte e Di Maio dall’altra stanno iniziando a barcollare, per non dire delle parole di Conte, sulla certezza che l’esecutivo gialloverde andrà avanti), resta il punto.

Escluse le elezioni anticipate, in Italia – Paese dove, in pratica, c’è ‘sempre’ qualche tornata elettorale da affrontare e che mette in discussione ‘tutto’ – resta da affrontare un’altra importante tornata di elezioni regionali tra il prossimo autunno e i primi mesi del 2020. Entro ottobre si dovrà votare, per forza, in Umbria, entro novembre (o, al massimo, entro gennaio dell’anno venturo) in Emilia-Romagna, in Toscana e Marche si vota nel 2020. Proviamo a guardare queste regioni al microscopio, partendo dai guai di casa dem e allargando l’orizzonte al centrodestra, stabilito che l’M5S è, ovunque, fuorigioco, nel senso che non ha alcuna possibilità di vincere in alcuna regione.

 

L’Umbria ‘rossa’ è ferma al ‘ground zero’ del post-Marini

 

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La presidente della regione Umbria, Catiuscia Marini, e il segretario del Pd, Nicola Zingaretti (fotomontaggio)

 

Partiamo dall’Umbria, regione in cui Salvini si sente la vittoria già in tasca. Si voterà a ottobre perché, dopo una sentenza della Corte di cassazione sulle elezioni in Lucania (dove è caduto l’ultimo ‘fortino rosso’ del Pd al Sud), non possono passare più di quattro mesi dalla decadenza o dalle dimissioni di un governatore alla data delle nuove elezioni. Come si sa, Catiuscia Marini si è dimessa a fine maggio, pur avendoci ripensato per ben tre volte, e solo dopo un asfissiantepressing dello stesso Zingaretti e del nuovo commissario del Pd umbro, il deputato (ex) veltroniano Walter Verini. Il quale parla – a Tiscali.it – del “volto di un ‘socialismo umbro’ che, ormai, non funziona più, un rito stanco e ripetitivo che si è logorato. Dobbiamo trovare soluzioni innovative e originali”.

“La prossima settimana – spiega Verini – inizierò un giro di oltre 200 incontri in oltre 200 comuni. Dobbiamo costruire una Grande Alleanza Democratica, civica e progressista, coinvolgendo la società civile”. Belle, e impegnative, parole, ma un candidato a governatore, dopo l’ora del ground zerocausata dalle dimissioni della Marini, non c’è ancora. Molti sindaci, anche di comuni molto piccoli, si fanno avanti e la candidata umbra del Pd alle Europee, Camilla Laureti, spoletina e amica di Zingaretti, ci spera, ma l’impressione è che il processo per trovare un candidato forte e autorevole sarà ancora lungo. Verini  non vuole sbilanciarsi sui nomi, con Tiscali.it, mentre, invece, il centrodestra sente il vento in poppa.

 

Donatella Tesei e Salvini

Donatella Tesei in compagnia di Salvini

 

Salvini ha già lanciato l’attuale sindaca di Montefalco, splendido paesino umbro, Donatella Tesei, come la sua candidata in pectore, e anche se FdI, il partito della Meloni rivendica per sé la candidatura, difficilmente la spunterà su Salvini e sulla Lega (più facile che la Meloni ottenga per sé la candidatura alla presidenza della Calabria nella persona della deputata Wanda Ferro). 

Le elezioni umbre sembrano un copione già scritto, come il famoso libro dello scrittore inglese Geoffray Hall (Sellerio), un giallo dal titolo geniale, “La fine è nota”: il centrodestra, Lega-centrico, in buona sostanza, si mangerà l’Umbria.

Certo, Verini si aggrappa a qualche residua speranza, peraltro sorretta dai numeri: “su 63 comuni che sono andati al voto, il centrosinistra ne ha vinti 38 e su 90 amministrazioni, ancora oggi ne governa la metà, tra cui Gubbio e Città di Castello”. Il problema è che il centrodestra governa tutto il resto, da Perugia – dove il suo sindaco uscente, Andrea Romizi, ha stracciato il dem, ed ex volto Rai, Giuliano Giubilei – fin su su, salendo sulla rocca dei frati francescani, Assisi. Del resto, anche Terni, Spoleto, Nocera Umbra e molti altri comuni sono già in mano al centrodestra, tutti tranne Gubbio

 

Il duo Giacchetti Ascani

Il duo Giacchetti Ascani

 

A complicare le cose, dentro il Pd, c’è pure la guerra ‘a bassa intensità’ dei renziani, capitanati da Anna Ascani – che, con Roberto Giachetti, è la pasdaran del renzismo – , i quali hanno provato a infilare qualche bastone tra le ruote della ‘gestione Verini’ (e, quindi, di quella Zingaretti), ma che, almeno per ora, in terra umbra sono stati arginati.

 

Le silenziose Marche traballano, ma forse resistono…

 

Luca Ceriscioli

Luca Ceriscioli

 

Le Marche rispondono, di fatto, al tormentone che, da anni, gira, sui social, sul piccolo Molise ( “Ma il Molise esiste?!”) nel senso che, della regione più quieta e meno polemica d’Italia, anche sul piano politico, non si parla quasi mai. Eppure, anche le Marche sono governate, storicamente – ma nella Seconda Repubblica, perché nella prima era la Dc a farla da padrone – dal centrosinistra, oggi in sella con il governatore Luca Ceriscioli. Il quale, quando si voterà di nuovo (nel 2020, però, non prima), si ricandiderà senza ombra di dubbio alcuno. Ma anche nelle Marche si sente spirare, e forte, il vento della nuova Lega di Salvini, e non solo perché, ormai, a farla da campione, è diventato cruciale il tema della sicurezza e quello dei migranti.

 

Matteo Ricci

Il sindaco uscente di Pesaro, Matteo Ricci

 

Certo, il sindaco uscente di Pesaro, Matteo Ricci (ex renziano oggi passato dalla parte di Zingaretti, nonché responsabile degli Enti locali del Pd e, da poco, presidente di Ali (la nuova Lega delle Autonomie dei comuni italiani, a nome della quale Ricci ha presentato una proposta di legge che mira a ripristinare “la dignità dei sindaci” attribuendo loro una “indennità minima di 1500 euro netti al mese”), ha umiliato il centrodestra, a Pesaro, con la sua rielezione al primo turno. Un trionfo.

Inoltre, il centrosinistra governa anche Fano, ma Urbino e altri centri sono caduti nelle mani di un centrodestra che, ad Ascoli Piceno, ha a sua volta umiliato il centrosinistra, portando al ballottaggio due liste e due candidati sindaci contrapposti, uno della Lega e uno di Forza Italia.

Inutile dire che ha vinto il leghista, contro un candidato azzurro imposto dall’alto da Tajani, e che la Legagià rivendica per sé la candidatura in Regione, quando, nel 2020, bisognerà trovare l’anti-Ceriscioli. Insomma, anche nelle Marche, l’assedio al centrosinistra si va facendo asfissiante.

 

Francesco Verducci - senatore marchigiano

Francesco Verducci – senatore marchigiano

 

Eppure, Francesco Verducci – senatore marchigiano e capofila, con Matteo Orfini, dei Giovani turchi, area politica dem cui apparteneva, peraltro, anche l’umbra Marini – è sicuro che “manterremo il governo delle Marche, quando si voterà”. Ma molto dipenderà dalla qualità del candidato di Salvini.

Come dice lo storico cattolico Andrea Riccardi, “il socialismo appenninico, quello che governa da 50 anni le Marche e l’Umbria, sta esalando i suoi ultimi respiri. E nessuno ricorda che, prima di diventare ‘regioni rosse’, furono terre ‘papaline’ e reazionarie e, dopo, fasciste”. Come a dire, si schierano ‘sempre’ con chi comanda…

La ‘rossa’ Toscana traballa, ma è anche la ‘ridotta’ renziana

 

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Filippo Nogarin (M5S), sindaco di Livorno

 

Ovviamente, gli occhi e gli appetiti di Salvini sono tutti, oltre che per l’Emilia rossa, come vedremo, appuntati sulla Toscana. Qui, però, il centrodestra ha subito battute d’arresto importanti, alle ultime elezioni amministrative. Livorno, dopo cinque anni di amministrazione ‘stellata’, con Filippo Nogarin, è tornata ‘rossa’ e in modo massiccio. Ma il neo-sindaco, Salvetti, eletto con il 63% dei voti, ci ha tenuto subito a specificare che “io mica sono uno del Pd, sono solo ‘di sinistra’…”.

Parole che hanno raffreddato gli entusiasmi del Nazareno. Anche Prato è rimasta ‘rossa’, grazie a Matteo Biffoni, e Firenze è stata facilmente vinta dal sindaco, al secondo mandato, Dario Nardella, che prima si è spogliato delle stimmate del renzismo militante e poi ha facilmente battuto il candidato scelto da Salvini ( e di Denis Verdini).

 

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Dario Nardella, sindaco di Firenze

 

Ma le amministrazioni di Massa e Carrara, nell’Ottocento cuore dell’anarchia, Lucca (un tempo unico baluardo della Dc in un mare rosso), Siena, cuore e anima dell’Mps (Monte dei Paschi), Pisa Grosseto, per non dire dei comuni di Laterina, paese della famiglia di Maria Elena Boschi, e di Rignano sull’Arno, patria della famiglia Renzi, sono diventate a valanga, negli anni, di centrodestra.

 

Elisa Simoni

Elisa Simoni, cugina di Renzi

 

I ‘giochi’, dentro il Pd toscano, sono lame di coltello affilate e lanciate in tutte le direzioni. Per fare un esempio, Elisa Simoni – ex deputata dem, poi candidata non eletta nelle fila di Mdp, poi rientrata nel Pd ben prima del patto, alle Europee, tra Zingaretti e Speranza, e per lo ‘scuorno’ dei renziani, che le hanno vomitato contro fiumi di bile – ha strappato la vittoria nel comune di Figline Val d’Arno, alle porte di Firenze, contro il centrodestra, ma anche contro il ‘fuoco amico’ dei renziani che hanno boicottato il suo candidato sindaco, andando a votare, di fatto, il… candidato leghista.

 

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La europarlamentare renziana Simona Bonafé (Pd)

 

Del resto, Zingaretti, ha pochi uomini fidati (tranne, appunto, la Simoni), il Pd toscano è retto dalla segretaria, nonché neo-rieletta parlamentare europea, Simona Bonafé, che lo governa con pugno di ferro, pur se in guanto di velluto, e i renziani (i senatori Marcucci e Parrini) o ex renziani (Federico Gelli, per dire, è diventato ‘gentiloniano’) fanno ancora il bello e il cattivo tempo, in regione e nel Pd.

Poi c’è il governatore uscente, Enrico Rossi, che aderì alla scissione di Mdp e si candidò con LeU, senza risultare eletto, e che da poco – e, soprattutto, senza che nessuno si accorgesse della ‘notizia’ – si è riaccasato dentro il Pd. Rossi punta a ottenere un terzo mandato, anche se è assai dubbio che possa farlo dato che una legge nazionale, poi recepita dai vari Statuti regionali, la n. 165/2014, lo vieta espressamente, fa notare il professor Stefano Ceccanti – per la guida della Regione (si vota nel 2020, forse a maggio) ma quasi sicuramente in autunno si terranno le primarie.

 

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Il primo leader e fondatore del Pd Walter Veltroni

 

Primarie che, però, mentre un tempo erano un modo per ‘allargare’ il campo del centrosinistra, – come notava giorni fa, in tv, anche il suo ideatore, dentro il Pd, Walter Veltroni – ora servono solo a ‘restringerlo’. Sono, di fatto, diventate un gioco al massacro tra le varie correnti. Eppure, si faranno. Il presidente dell’assemblea regionale toscana, Eugenio Giani, ci tiene moltissimo: molto popolare – viene chiamato “il sindaco della Toscana” – tra la gente ma anche molto e sempre frenato dal suo ex dante causa (Renzi), Giani vuole fare il ‘grande salto’ e candidarsi lui, stavolta. Avrà, contro, sicuramente Rossi e Gelli, forse la Bonafé.

 

Susanna Ceccardi

Susanna Ceccardi

 

Intanto, Salvini si gode lo spettacolo delle divisioni interne che lacerano il Pd toscano e punta tutte le sue carte sulla sindaca di Cecina (Pisa), Susanna Ceccardi, mentre FI, che sognava di candidare il volto della tv Mediaset Paolo Del Debbio, non può che accodarsi, come FdI, al carro della Lega.

I 5Stelle, ridotti  a percentuali ridicole, balbettano e la sinistra a sinistra del Pd si è vaporizzata.

Insomma, anche in Toscana, “l’assalto al cielo” (rosso) è possibile, anche se il Pd è sicuro di riuscire a sventarlo. Certo, Renzi, Boschi, ma soprattutto Luca Lotti, potrebbero ancora voler dire la loro, ma molto dipenderà da quanto Zingaretti vorrà lasciargli in mano una ‘riserva indiana’ o quanto deciderà di puntare sui suoi nomi nuovi.

La mitica ‘Emilia rossa’ è il vero obiettivo di Salvini

 

Stefano Bonaccini

Stefano Bonaccini

 

Ma il vero ‘bersaglio grosso’ che Salvini ha in mente è, ovviamente, la conquista della ‘regione rossa’ per ‘statuto’ e per definizione, cioè l’Emilia-Romagna. Il governatore uscente, Stefano Bonaccini (ex bersaniano, ex renziano, ora zingarettiano…), ha annunciato di volersi ricandidare. Zingaretti di certo non gli si opporrà. La regione è troppo importante, anche per i suoi destini personali, appunto, ma nel Pd locale è scoppiata la guerra del ‘tutto contro tutti’.

 

On. Luigi Marattin, ex consigliere economico di Matteo Renzi e attuale onorevole in forza al PD

On. Luigi Marattin, ex consigliere economico di Matteo Renzi e attuale onorevole in forza al PD

 

Il deputato emiliano Luigi Marattin, già consigliere economico a palazzo Chigi durante il governo Renzi e molto efficace negli interventi in aula come nei talk show, ha sferrato l’attacco: “Il Pd regionale dell’Emilia-Romagna non elegge un segretario con le primarie da dieci anni. Il modo migliore per sostenere la candidatura di Bonaccini è rinnovare il Pd attraverso un congresso straordinario”. Un obbligo, per Marattin, dopo le sconfitte dem a Ferrara e Forlì.

 

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Federico Pizzarotti, sindaco di Parma e fondatore del movimento ‘Italia in Comune’

 

E se, in Emilia, il Pd è risalito di cinque punti rispetto alle Politiche del 2018 (+35mila voti in termini assoluti), il dato regionale delle europee è preoccupante: il centrodestra è al 44%, con la Lega al 33%; il centrosinistra arranca – per essere, questa, la storica ‘Emilia rossa’ –  al 39%, con il Pd al 31% (e il Pci, in Emilia, faceva anche il 70%…). Eppure, 174 su 235 comuni in cui si è votato a maggio, sono andati al centrosinistra che, oggi, governa sette delle dieci province: Bologna, Reggio, Modena, Ravenna, Cesena, Rimini e Parma – che, in realtà, è il regno di Federico Pizzarotti (ex M5S delle origini, oggi capofila di ‘Italia Bene Comune’) – mentre il centrodestra ha Forlì, Ferrara e Piacenza.

Morale, la partita è molto complicata, ma ancora aperta. Il “modello Modena” ha funzionato: il sindaco uscente del Pd – che, sulla base dei numeri del 2018 era destinato alla sconfitta – ha vinto al primo turno con una coalizione civica, capace di intercettare il voto in uscita dai 5Stelle. A Ferrara, invece, la sinistra era divisa, è stato impossibile costruire una coalizione e il Pd ha perso malissimo, dopo 70 anni di governo ininterrotto e incontrastato. 

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Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia

 

In Emilia, in teoria, si dovrebbe votare a novembre, con la Calabria (altra regione ‘destinata’ a finire nelle mani del centrodestra, probabilmente con un candidato espressione della Meloni, la Wanda Ferro), ma è più probabile che il voto venga ritardato fino a gennaio, per consentire alla giunta Bonaccini di approvare il bilancio regionale senza andare in esercizio provvisorio e dando ossigeno, con i fondi regionali pronti, ai comuni.

 

Il sindaco di Bologna, Virginio Merola

Il sindaco di Bologna, Virginio Merola

 

Gli uomini forti del nuovo Pd di Zingaretti in regione sono tre. Il primo è il sindaco di Bologna, Virginio Merola – uno che si sente ‘importante’ come se fosse il sindaco di Milano o di Roma… – che parla di “modello Bologna” (vincente, ovviamente) da ‘esportare’ in regione.

Il secondo è il deputato dem Andrea De Maria, già cuperliano, poi martinano e, oggi, con Zingaretti, da lungo tempo dentro la segreteria dem. Ma è il terzo il vero astro nascente del Pd emiliano, Gianluca Benamati: ex renziano, è stato lui che ha fatto vincere, spostandosi dall’area Renzi a quella Zingaretti, il congresso tra gli iscritti e tra gli elettori, in regione. Ed è lui che spiega, a Tiscali.it, che “il Pd si deve concentrare su due punti: valorizzare il lavoro svolto dalla giunta Bonaccini e rilanciare il partito, radicandolo sui territori”. Benamati parla di ‘modello Baricella’, un piccolo comune vicino Bologna dove il sindaco dem – che in base ai risultati delle Europee, avrebbe dovuto soccombere alla Lega  – ha invece stravinto.

 

Il segretario federale della Lega Nord e candidato premier, Matteo Salvini, con la senatrice Lucia Borgonzoni

Il segretario federale della Lega Nord e candidato premier, Matteo Salvini, con la senatrice Lucia Borgonzoni

 

Ma Salvini ha già l’asso da calare: l’attuale sottosegretario Lucia Borgonzoni, onnipresente in tv, tosta, brava e ‘anche’ donna. Sarà una sfida all’ultimo sangue, quella che si svolgerà in Regione. Perché, appunto, per riprendere le parole del colonnello renziano dell’inizio, “Se Zingaretti, più ancora che la Toscana, perde l’Emilia è finito il regno di Zingaretti”.

 

Il ‘lago verde’ del Nord vuole espandersi al Centro

 

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Matteo Salvini, ministro dell’Interno e vicepremier

 

Ricapitolando, si voterà in Umbria, entro ottobre, e di sicuro, oltre che in Calabria (tra ottobre e novembre), poi in Emilia-Romagna (in teoria a novembre, ma è più facile che  si voti a gennaio), in Toscana (nel 2020) e nelle Marche, sempre nella prima metà dell’anno prossimo. La strategia di Salvini e della Lega, ormai ‘mazzieri’ del ‘nuovo’ centrodestra (FdI, quel che resta di FI, Udc, etc.) è talmente chiara che, ormai, non fa più neppure notizia.

Dopo aver strappato, in rapida successione, al centrosinistra, Molise e Friuli-Venezia Giulia, subito dopo le Politiche, poi Sardegna, Abruzzo, Basilicata, nell’inverno appena passato, e persino il Trentino Alto-Adige, dove la Svp ha rotto una alleanza cinquantennale con il Pd per allearsi con la Lega, ora è tempo di dare l’assalto alle regioni rosse rimaste in mano alla sinistra.

 

Nello Musumeci

Nello Musumeci

 

Toscana ed Emilia-Romagna, appunto, ma anche Umbria e Marche. Restano, in mano al Pd, solo il Lazio, regione dove lo stesso Zingaretti ha rivinto le regionali lo stesso giorno delle Politiche del 2018, ma per il rotto della cuffia, la Puglia, dove regna Michele Emiliano, oggi con Zingaretti e storico avversario di Renzi, e la Campania, feudo di Vincenzo De Luca, ormai ex renziano. Come si sa, la Sicilia, oggi governata da Nello Musumeci, è ‘caduta’ da molto tempo (2017), e Musumeci ha stretto un patto proprio con Salvini, come pure ha fatto il neo-governatore sardo, leader del Partito sardo d’Azione, mentre il Molise ha un governatore, Donato Toma, ‘equivicino’ alla Lega come a FI.

Inoltre, il Nord, ormai, è un lago verde-azzurro. La Lega già governa, e da decenni, la Lombardia, con Attilio Fontana, il Veneto, con Luca Zaia, e ora anche il Friuli, con Massimiliano Fedriga mentre la Liguria, in mano al governatore Giovanni Toti, già entrato in orbita Lega, la governava già da prima.

A queste regioni si è aggiunta, alle ultime amministrative, il Piemonte, con un presidente, Alberto Cirio, formalmente azzurro, ma pure lui dal cuore ‘padano’. Insomma, mancano, appunto, solo le ultime ‘regioni rosse’, stabilito che l’ultimo ‘fortino rosso’, la Basilicata, è caduta nelle mani del centrodestra (Vito Baldi, FI) da pochi mesi, e che la Calabria sta, a sua volta, per finirci a novembre.

 

Cosa sono e cosa vuol dire il termine ‘regioni rosse’

 

il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo

il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo

 

Il termine “regioni rosse”, viene da lontano. Si chiamano così, addirittura, dal 1918, perché vi vincevano le giunte ‘rosse’ (cioè, allora, socialiste) e persino il fascismo dovette espugnarle con la forza. Dal 1968 in poi e da quando, nel 1970, le regioni italiane ebbero statuto e dignità di regione, il termine è di uso comune anche in sociologia.

Ma “è improprio parlare, oggi, di ‘regioni rosse’, oggi” – spiegava, già tempo fa, al Foglio, il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo, commentando i risultati dei ballottaggi che hanno visto la sinistra perdere in particolare Imola, dove governava dal 1945; Siena, “rossa” dal 1946; Terni, dove era stata al potere dal 1946, salvo la parentesi del 1993-‘99; Pisa, conquistata nel 1971; Massa, dove il Pd era tornato al governo municipale dal 1994.

 

Il Pd perde potere in termini assoluti e percentuali…

 

triangolo rosso

Il Triangolo rosso

 

Il Pd ha subito rovesci anche in molti altri comuni e ora si limita a conservare, qua e là, qualcosa dell’antico potere. Ma è nel “triangolo rosso”, composto da Emilia-Romagna, Toscana e Umbria, che il dato del crollo dei dem fa più impressione.

Già nel marzo del 2018, dopo il voto delle Politiche, un responso del genere era stato dato dall’Istituto Cattaneo. “A cinquantanni di distanza dal riconoscimento ufficiale dell’esistenza della #zonarossa, possiamo certificare la fine degli elementi che avevano caratterizzato il comportamento elettorale dei cittadini di Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche”, scriveva.

Tre i fenomeni principali. Primo: il dimezzamento dell’area di riferimento elettorale dei partiti del centrosinistra, passati dal 59,2% del 1968 al 30,1% del 2018. Secondo: il sorpasso del M5S sul Pd come primo partito. Terzo: il sorpasso del centrodestra sul centrosinistra come prima area politica.

Nella Seconda Repubblica, la Lega aveva già sfondato nella cd. “area Bianca” (Trentino, Veneto, Lombardia), ma in compenso “l’area Rossa” aveva tenuto, annettendosi anche le Marche. Pci e suoi eredi erano non solo il partito più votato, ma anche il principale punto di riferimento dell’economia. Non a caso uno degli esempi più clamorosi del crollo è stato a Siena, città del Monte dei Paschi.

 

La Lega sta diventando la ‘nuova Dc’ o il ‘nuovo Msi’ d’Italia?

 

Il Professor Stephen Gundle

Il Professor Stephen Gundle

 

Il politologo inglese Stephen Gundle – autore di un bellissimo libro sul Pci del dopoguerra (“Il Pci tra Mosca e Hollywood”) rilevò che, all’interno della sinistra europea, la subcultura del Pci si distingueva “perché venne creata molto più tardi delle altre, quando ormai il loro periodo d’oro era finito da un pezzo. Dopo la Seconda guerra mondiale, il Pci ha creato l’ultima grande subcultura di sinistra in Europa e proprio per essere stata fondata più tardi delle altre, è stata la più duratura. Certo, nulla è eterno, ma il ‘cambio’ ha del clamoroso ed epocale.

Ma come si spiega la crescita della Lega nelle (ex) regioni rosse? Con la disaffezione verso la vecchia classe dirigente, certo, ma c’è anche altro. Due ricercatori, Moreno Mancosu del Collegio Carlo Alberto e Riccardo Ladini dell’Università di Milano, in un paper (“The ‘new’ League success in the red belt and its post-fascist inheritance: evidence from 2018 National Elections”) sostengono che vi è una relazione tra la presenza, piccola ma agguerrita, di una minoranza post-fascista fin dalla Prima Repubblica, in alcune zone geografiche, e la crescita della Lega di Matteo Salvini negli ultimi cinque anni. Una tesi confermata poi anche dall’analisi dei dati elettorali.

 

Giorgio Almirante leader del Msi

Giorgio Almirante leader del Msi

 

“L’idea – spiegavano i due ricercatori, già alcuni mesi fa, al Foglio – era vedere se ci fosse una relazione fra il voto del 1976 al Msi e quello attuale alla Lega”. Questa relazione c’è ma si manifesta solo a partire dall’elezione di Matteo Salvini a segretario della Lega e dalla trasformazione di quest’ultima da partito single issuein partito generalista, pur se con molte issues cambiate a seconda delle convenienze del momento.

Il passaggio da Roma all’Europa nell’individuazione del nemico geografico da abbattere e il passaggio dai meridionali ai migranti nell’individuazione del bersaglio economico-sociale hanno favorito il consenso della Lega anche in aree poco propense a scegliere un partito etno-regionalista come era la vecchia Lega a guida Bossi.

 

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Umberto Bossi, fondatore della Lega Nord

 

Ma se il terremoto elettorale 2013-2018 è conseguenza di una diffusa protesta politica, questa protesta ha premiato la Lega maggiormente in quei comuni nei quali la tradizione politica postfascista era più forte. E così, a prescindere da quanti migranti ci sono, dove c’era una tradizione politica di destra più radicata, ora la Lega di Salvini raccoglie più consensi, quantomeno nelle (ex) regioni rosse. Va detto, però, che il ‘sogno’ di Salvini non è certo quello di essere il leader di una forza minoritaria e ‘anti-sistema’ come fu, per tutta la Prima Repubblica, l’Msi e come era la vecchia Lega ma una forza politica ‘centrale’ e sistemica, un ‘partito pigliatutto’ come era la Dc nella Prima Repubblica ma che guarda ‘a destra’ e non ‘a sinistra’, e come, per un breve momento, fu il Pd di Matteo Renzi.

 

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L’ex leader del Pd Matteo Renzi

 

Per ottenere lo scopo, il governo nazionale Salvini lo ha già in mano, mancano solo un pugno di regioni dell’Italia centrale quelle, appunto, delle ‘regioni rosse’. Le prossime elezioni regionali ci diranno se il suo ‘sogno’ sarà coronato dal successo o resterà solo un sogno come quello di Renzi.

 


 

NB: Questo articolo è stato pubblicato, in forma molto più ridotta e succinta, sul sito di notizie Tiscali.it il 13 giugno 2019