Renzi novello Machiavelli: “Destabilizzo per stabilizzare”. Radiografia di una scissione
17 Settembre 2019Sommario
“Non gioco più (con voi). Me ne vado”
La scissione è fatta
Matteo Renzi ha deciso: “Non è più sostenibile la situazione, nel Pd. Vogliono che me ne vada? Me ne vado”. Un big renziano, invece, la mette già così: “Che senso ha aspettare ancora? Per ascoltare l’ennesimo appello, magari nemmeno sincero, all’unità?”.
Il mistero poco glorioso e peggio conservato nella storia della Repubblica, di fatto un segreto di Pulcinella, nonché la scissione meno motivata, sul piano ideologico ed ideale, nella pur lunga e infinita storia delle scissioni della sinistra (e, ovviamente, del Pd) sta, dunque, per concretizzarsi. Oggi l’annuncio, semi-ufficiale.
Il ‘folle volo’ sta nel fondare un movimento (non un partito) che si chiamerà, forse, “L’Italia del Sì” (in ogni caso, ci sarà la parola “Italia” e tanto basta) e che si baserà sui comitati civici ‘Azione civile – Ritorno al Futuro’ (sono mille circa, ramificati in tutt’Italia, con 10 mila aderenti), ma anche, nelle intenzioni di Renzi, sull’idea di costruire “il partito del Pil” cioè di chi produce, oltre che di chi lavora.
“L’Italia del Sì” ha i finanziatori. Alla Leopolda il battesimo
L’appuntamento della Leopolda, dal 18 al 20 ottobre, ne sarà il battesimo mediatico, e lì ne verrà tracciata la rotta: servirà, insomma, a motivare le truppe e, anche, a vedere quanti – vip e non vip – vorranno essere della partita.
E, anche quali e quanti nuovi ‘finanziatori’ arriveranno: l’imprenditore della cioccolata Venchi di sicuro, avendo già versato 100 mila euro alla causa del senatore toscano, ma altri ne arriveranno. Spulciando tra le erogazioni liberali a sostegno dei comitati civici di Renzi, spiccano i nomi di Daniele Ferrero, appunto, primo azionista con il 27% nonché amministratore delegato della Venchi, colosso della cioccolateria.
Segue con 90mila euro Davide Serra, il finanziere italiano naturalizzato britannico, fondatore e amministratore delegato del fondo Algebris, da sempre vicino a Renzi.
E poi ci sono aziende come la Quintessentially Concierge (10mila euro): un “servizio concierge -si legge nel sito- ideato per supportare i suoi soci 24 ore al giorno” o la Tci – Telecomunicazioni Italia (5.000 euro) del deputato dem Gianfranco Librandi, azienda “leader tra i produttori mondiali di componenti elettronici per l’illuminazione”, come riporta il suo sito web.
Poi, 20mila euro da Bruno Tommasini, stilista di lusso e tra i fondatori dell’Arcigay, 10mila euro da Energas Spa, azienda che si occupa di distribuzione e vendita del Gpl ed ancora 4.000 euro da Ciemme Hospital Srl, impresa attiva nel commercio all’ingrosso di prodotti farmaceutici.
Tra i finanziatori dei comitati renziani ci sono anche aziende ‘green’ come Eco Iniziative Srl (2.000 euro) e la Acqua Sole Srl (1.500 euro). Ed ancora 3.000 euro da Angelo De Cesaris Srl, azienda abruzzese che si occupa di costruzioni e ambiente, come lo smaltimento rifiuti, si spiega nel sito. Nell’elenco dei donatori spunta anche il nome di Lupo Rattazzi (40mila euro versati a luglio e 10mila ad agosto), imprenditore, figlio di Susanna Agnelli, che aveva dichiarato il sostegno ai comitati, e poi ci sono i parlamentari. Una lista che, in teoria, potrebbe fornire una griglia di massima per le adesioni ai nuovi gruppi renziani.
In questo caso le somme donate si aggirano tutte sui 1.000 e i 2.000 euro. Tranne Renzi, che ad agosto ha versato 10mila euro. Tra i senatori ci sono: Andrea Ferrazza, Eugenio Comincini, Laura Garavini, Nadia Ginetti, Ernesto Magorno, Mauro Maria Marino, il ministro Teresa Bellanova, Davide Faraone, Giuseppe Cucca, Caterina Biti, Alan Ferrari, Salvatore Margiotta, Leonardo Grimani. Tra i deputati: Maria Elena Boschi (1.500 euro versati ad agosto), Ettore Rosato, Marco Di Maio, Anna Ascani, Mauro Del Barba, Martina Nardi, Lisa Noja, Maria Chiara Gadda, Andrea Rossi, Vito De Filippo, Luciano Nobili, Gennaro Migliore, Ivan Scalfarotto.
L’ufficialità della scissione arriverà tra oggi – con l’intervista di Renzi a Repubblica e, in serata, quando, ospite a Porta a Porta, da Bruno Vespa, dirà “sì, me ne vado dal Pd” – e i prossimi giorni, quando si formeranno i nuovi gruppi parlamentari. In più, per ora, oltre ai gruppi c’è la delegazione dei renziani al governo, non piccola: due ministri, Bellanova, che farà da capodelegazione, e Bonetti, più un viceministro, Ascani, e un sottosegretario, Scalfarotto.
Infine, presto, arriverà anche la ‘proiezione’ europea dell’Italia del Sì: un solo eurodeputato, per ora (Danti), ma agganci solidi con Renew Europe, il nuovo gruppo nato in seno al Parlamento europeo e costituito da En Marche! di Macron e dall’Alde, un progetto cui lavora l’ex sottosegretario di Renzi agli Affari europei, Sandro Gozi, che vuole fornire ‘solide basi’ in chiave di rapporti con Bruxelles.
Renzi, formato Machiavelli, dice a Conte: “Io ti stabilizzo”..
Il guaio, però, ce lo ha tutto il governo e la maggioranza. Con la ‘delegazione’ dell’Italia del Sì, al governo e con i nuovi gruppi formati, il governo (e la maggioranza) diventa ‘quadripartito’: oltre a Pd-M5S-LeU ecco arrivare Renzi.
In un’intervista rilasciata sabato scorso al Times, l’ex premier raccontava di aver lavorato quando era sindaco nell’antico studio di Machiavelli ma “posso dirvi che non sono machiavellico” (Antonio Funiciello, ex capo staff di Paolo Gentiloni a palazzo Chigi, che ha scritto un gran bel libro, Il Metodo Machiavelli, Rizzoli, direbbe l’esatto contrario, ma non importa…).
In molti, però, nel tempismo scelto nel decidere lo strappo dal Pd, di cui si vociferava da mesi, ma diventato solo ora imminente, cioè solo subito dopo la nascita del Conte bis, vedono l’accostamento con le tesi del politologo fiorentino del Cinquecento. Certo, assicurano i renziani, il nuovo movimento “non sarà un pericolo per il governo”, anzi “paradossalmente – garantisce Renzi sempre nell’intervista al Times – ne amplierebbe il sostegno”. L’ex premier, ieri sera, ha assicurato lealtà a Conte stesso con una telefonata mentre identico lavoro faranno con Di Maio e i 5Stelle i nuovi capogruppo del suoi ‘coraggiosi’, e cioè Luigi Marattin alla Camera e, forse, Bonifazi al Senato.
Insomma, Renzi ha mollato gli ormeggi ed è convinto che, come spiega al Times, “siamo 1 a 0 contro il populismo, è importante sconfiggere Salvini fra la gente, non solo politicamente”. Ma ora, dopo averlo messo fuori gioco al governo con l’intesa M5S-Pd sul Conte bis, il ‘2 a 0’ Renzi vuole giocarlo in proprio e, in futuro, in chiave elettorale, contro Salvini.
I renziani sorridono sicuri: “C’è uno spazio politico enorme”
Certo è che, per i fedelissimi che lo seguiranno, sono molte le ragioni per separare le strade dal Partito democratico: “C’è uno spazio politico enorme – spiega uno dei dirigenti impegnati nell’operazione – sia nell’elettorato moderato, a causa dell’appannamento di Berlusconi e della centralità di Salvini ,sia nell’elettorato di centrosinistra perché sentire cantare ‘Bandiera rossa’alle feste del Pd per molti elettori non è folklore e mette a disagio” (inutile provare a ribattere che si chiamano ‘Feste dell’Unità’ ancora oggi perché proprio dalla tradizione comunista provengono…).
Nessun timore della concorrenza al centro di un eventuale soggetto che sta per lanciare, entro dicembre, l’europarlamentare Carlo Calenda insieme al senatore Matteo Richetti, entrambi appena usciti dal Pd perché contrari all’alleanza di governo con l’M5S: “E’ un tema solo per il ceto politico non tra la gente” lo liquidano i renziani, felici, in ogni caso, di aver ‘stracciato’ Calenda sui tempi.
Altro che “separazione consensuale”. Nel Pd monta l’ira
Nel Pd, però, la notizia non l’hanno presa bene. Se ne è lamentato prima, e apertamente, Dario Franceschini, poi tutti gli altri. Ieri, nell’estremo tentativo di impedire l’ineluttabile, cioè la scissione, ci hanno provato in diversi, tra mozioni degli affetti (poche), larvate minacce e frasi a mezz’aria, ma è stato inutile.
L’ex presidente di epoca renziana, Matteo Orfini, l’ha buttata pure sul latinorum (Extra ecclesia nulla salus, fuori dalla Chiesa non v’è salvezza) perché di questo si tratta, uno “scisma”.
Così lo ha bollato il segretario Zingaretti, cui la cosa non può piacere: nessun contatto c’è stato, tra il segretario vecchio e quello nuovo, che continua, da giorni, a fare appelli contro la scissione. Insomma, altro che “separazione consensuale”.
La scissione, per Enrico Letta, è “una cosa non credibile, non c’è alcuno spazio per una scissione a freddo, e parlare di separazione consensuale non ha senso”, per Luigi Zanda “sarebbe un trauma” e giù giù criticando.
Solo il sindaco di Milano Giuseppe Sala non sembra disperarsi (“C’è chi entra e c’è chi esce nel Pd”, sibila), mentre a nulla sono valsi gli accorati appelli dei sindaci – ex renziani – Dario Nardella (Firenze) e Giorgio Gori (Bergamo), che non seguiranno Renzi come molti altri amministratori locali.
L’area Lotti-Guerini resta nel Pd. Guerra di veleni tra renziani
Non solo. Neanche tutti i renziani seguiranno Renzi: Lotti e Guerini, ministro della Difesa, restano nel Pd, insieme al grosso dell’area cui hanno dato vita, ‘Base Riformista’.
Certo, l’incertezza sui nomi degli ‘scissionisti’ è ancora grande, ma nell’elenco mancano nomi importanti del renzismo militante che fu, non solo quelli di Lotti e Guerini, mentre tanti sono quelli profondamente tormentati dalla situazione: “Io – dice un renziano della prima ora – per ora resto nel Pd. Ma certo non è facile, sono con Matteo da così tanto tempo…”.
Non se ne andranno, alla Camera, altre ex renziani tutte d’un pezzo come Raffaella Paita e Alessia Rotta, non se ne andrà via, dal Senato, un renziano così (ex) doc che per conto Renzi ha scritto ben due leggi elettorali, il Toscanellum e il Rosatellum, Dario Parrini, né se ne andrà Salvatore Margiotta, fiero e coriaceo (ex) renziano lucano, a sua volta appena diventato sottosegretario.
Simona Malpezzi, a sua volta altra ex renziana doc, oggi sottosegretario, prova a ridimensionare la realtà (“Non penso che l’uscita sia all’ordine del giorno”), ma qui la sola cosa certa è che lei non se ne andrà via dal Pd.
Un altro neo sottosegretario, Alessia Morani, ex pasdaran, poi, aggiunge: “Non posso che fare un appello all’unità, spero che nessuno faccia scelte che sarebbero incomprensibili per gli elettori”.
Entrambe, lasciando palazzo Chigi dopo il giuramento che hanno prestato da sottosegretari, lanciano in coro l’ultimo appello: “Il Pd è una casa plurale dove c’è spazio per tutti”. Ovviamente, i renziani doc già malignano: “Franceschini se li è comprati con due posti da sottosegretari, ecco perché restano…”. Vendette e veleni che, ormai, dividono – ma già da settimane, se non mesi – renziani soft e renziani hard. Come quella che dice “ormai l’area di Lotti e Guerini non esiste più, finiranno nelle larghe braccia di Franceschini…”. I lottiani replicano a muso duro: “Renzi voleva cinque sottosegretari tutti e solo per sé, si è adontato assai per non averli avuti tutti e cinque, e ora vuole gettare le sue truppe nella mischia solo per contare di più al tavolo del governo”.
E così, mentre il giovane deputato siciliano Carmelo Miceli, dato tra i fuoriusciti, smentisce le voci (“Lavoro per unire, non per dividere. Sono per l’unità del Pd”), il neo sottosegretario Ivan Scalfarotto garantisce solo che resterà tale (“ci mancherebbe, ho appena giurato”), ma non chiarisce se potrà esserlo come esponente di un altro gruppo e/o partito: “Sono sottosegretario di stato del governo italiano. Sono molto orgoglioso, è un grande onore. Lo farò con grande entusiasmo fino alla fine”.
Quelli che se ne vanno/1. Un gruppo robusto alla Camera
Si fa prima, dunque, a dire chi ci sarà, nei nuovi gruppi. Alla Camera, quelli certi sono 15, tra cui Roberto Giachetti (ieri ha pubblicato un video su Fb per annunciare intanto le sue dimissioni dalla Direzione dem in quanto ‘frontman’ del no ad ogni ipotesi di accordo con i 5 Stelle), i due membri del governo già citati, Ascani e Scalfarotto, la ex ministra Boschi, Luigi Marattin, che dell’Italia del Sì sarà il capogruppo, Rosato (vicepresidente della Camera e, soprattutto, organizzatore dei comitati civici di Renzi), il watch dog dei dem in commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, il deputato romano Luciano Nobili, altri deputati di varie parti d’Italia (Fregolent, Del Barba, Caré), l’ex tesoriere di Scelta civica e imprenditore Gianfranco Librandi, Marco Di Maio, l’imprenditore Mattia Mor, e un ex comunista, alla lontana, come Gennaro Migliore. Con altri 5 incerti (Romano, Vazio, D’Alessandro, Berlinghieri, Annibali), potrebbero persino non servire gli innesti da altri gruppi, che pure arriveranno (tre i deputati, oggi nel Misto, di Civica e Popolare, compresa Beatrice Lorenzin, un ex deputato dell’M5S, Catiello Vitiello, un paio di Più Europa, etc) per arrivare alla quota di venti deputati, il numero minimo. Mal che vada venti deputati che assicurano la possibilità di ‘fare gruppo’ (il che vuol dire anche posti nella conferenza dei capigruppo, nelle commissioni), ci sono già. Ben che vada i renziani potrebbero arrivare a 25/26 deputati, un gruppone degno di nota e peso.
Quelli che se ne vanno/2. Un gruppo piccolo al Senato
Al Senato, invece, i numeri si restringono, e di molto: oltre Renzi, ce ne sono – sicuri – sette: Bonifazi, Faraone, Cerno, Bellanova, Ginetti, Marino, Comincini. Con Casini farebbe nove e con il senatore Nencini dieci, ma gli ultimi due smentiscono, almeno per ora, di voler andare con Renzi.
Ne servirebbero un altro paio, o più, magari in arrivo da FI (il senatore toscano Massimo Mallegni li guiderebbe), per ‘scalare’ il gruppo, oggi guidato dalla De Petris (LeU), e ottenere, anche lì, di eleggersi un capogruppo ‘in proprio’. Infatti, al Senato, il nuovo regolamento vieta la costituzione di gruppi che non possano contare su un simbolo presente alle precedenti elezioni: anche se i renziani arrivassero a quota dieci senatori non potrebbero in ogni caso costituire dei gruppi autonomi.
L’idea è di ‘scalare’ il gruppo Misto ed eleggere al suo interno, forti di sette/otto senatori, un renziano. Non Andrea Marcucci, certo, che resterà nel Pd al Senato, e che gli stessi renziani vorrebbero restasse anche come capogruppo dei dem. Il che, peraltro, creerebbe una situazione assai paradossale: Renzi potrebbe ritrovarsi con un capogruppo ‘proprio’, quello del Misto, e un capogruppo ‘amico’, quello del Pd, ma almeno su Marcucci l’ultima parola spetterà a Zingaretti. Il quale, una parola chiara, sulla scissione di Renzi, però, nei prossimi giorni, dovrà pur dirla.
NB: Questo articolo è stato pubblicato sul sito di notizie Tiscalinews.it il 17 settembre 2019