Voci dal Transatlantico 5. Pd a congresso. Le mosse del fronte anti-Renzi per annullare “l’effetto Minniti”

Voci dal Transatlantico 5. Pd a congresso. Le mosse del fronte anti-Renzi per annullare “l’effetto Minniti”

29 Ottobre 2018 0 Di Ettore Maria Colombo

Pubblico qui un articolo, scritto in originale per il blog, sulle mosse del fronte anti-Renzi in vista del congresso del Pd.

 

Pur avendone diffusamente scritto, alle cronache della Conferenza programmatica del Pd che si è tenuta a Milano nello scorso weekend, è mancata un’analisi di prospettiva. Forse neppure Renzi e i suoi se ne sono resi davvero conto. Infatti, diversi episodi accaduti proprio nel corso della conferenza avrebbero dovuto far suonare un campanello di allarme, tra i renziani, campanello che solo un renziano ortodosso come il capogruppo al Senato Andrea Marcucci ha colto, intervenendo dal palco e, sostanzialmente, chiedendo di rinviare il congresso (richiesta subissata dai fischi). Proviamo a mettere ordine tra i diversi fatti e a legarli tra di loro. Sabato mattina, il giorno di apertura, esce un’intervista di Dario Franceschini, leader di Area dem e già sostenitore – nell’ordine – delle segreterie Veltroni, Bersani e Renzi (purché, si capisce, lui resti in maggioranza), che oggi sostiene apertamente la candidatura di Nicola Zingaretti, il solo candidato effettivo e palese al prossimo congresso, candidatura lanciata nella sua due giorni di “Piazza Grande”. Franceschini chiede, in soldoni, che “tutti” gli altri possibili candidati che non si chiamino Zingaretti (quindi sia Minniti che Martina) convergano sul governatore del Lazio, “il solo che ci può portare fuori dalla palude e dalla sconfitta”.

 

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Durante la conferenza programmatica, poi, gli interventi che ‘demoliscono’ l’era Renzi si sprecano. Si va dalla rediviva Federica Mogherini, che proprio Renzi volle indicare come ‘lady Pesc‘ (cioè ministro degli Esteri della Ue), al filosofo Massimo Cacciari, lodato a più riprese da Martina, dall’economista Tommaso Nannicini (che Renzi volle con sé a Palazzo Chigi, ma che ora è diventato il nuovo responsabile economico di Martina) a uno dei leader della sinistra interna, Gianni Cuperlo, il solo che dimostra, almeno, il buon gusto di chiedere sì “scusa” per gli errori del passato, ma senza passare sopra all’apostasia dei tanti (vedi alla voce: Franceschini) che per anni hanno appoggiato Renzi e ora lo disconoscono e ovviamente per Andrea Orlando, l’altro leader della sinistra interna pronto ad appoggiare Zingaretti, che già gode dell’appoggio, oltre che di Franceschini, di gran parte della sinistra interna e pure esterna (Leu). Infine, l’intervento del padre fondatore del Pd, Walter Veltroni, molto critico verso ‘il passato’ e la presenza silenziosa, ma di fatto solidale con l’impostazione ‘anti-renziana’ alla conferenza data da Martina, dall’ex premier Paolo Gentiloni.

 

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Renziani doc come l’ex viceministro allo Sviluppo Economico, ed ex cigiellina, Teresa Bellanova e l’ex ministra Maria Elena Boschi prendono cappello e se ne vanno. Persino Lorenzo Guerini, compassato e mediatore di suo, ha un moto di stizza. Dei fischi a Marcucci si è detto, ma non basta: ogni parola di Martina critica a Renzi è subissata di applausi. Lo stesso Martina ha poi fatto sapere che “presto”, cioè a giorni, si dimetterà aprendo la strada, con la convocazione dell’Assemblea Nazionale (l’unico organo che, nel pd, per statuto, può dare vita al percorso congressuale anticipato), che si terrà, probabilmente, l’11 novembre. Ultimo sfregio ai renziani, la data: proprio in quel weekend si doveva tenere l’assemblea dell’area renziana a Salsomaggiore, a questo punto forse rinviata a data da destinarsi, mentre una parte dei pasdaran dell’ex segretario ed ex premier pensano a tutt’altro, e cioè a far nascere i ‘comitati civici‘ anti-governo di cui Renzi ha parlato nella tre giorni dell’ultima edizione della Leopolda a fine ottobre, disinteressandosi del congresso e, aggiungono i più maliziosi, anche del Pd, creatura che Renzi vorrebbe, ormai, se non lasciare, quantomeno superare. Ipotesi, quella della ‘scissione’ o, meglio, della fondazione di un nuovo partito di stampo macroniano, europeista e liberal-democratico che affascina ogni giorno di più i pasdaran del renzismo.

Non a caso, un cattolico democratico come Graziano Delrio, oggi capogruppo del Pd alla Camera,  ieri ex ministro, che invece nel Pd vuole rimanere, è sempre più distante dai propositi di Renzi e potrebbe appoggiare, al congresso, l’outsider ex renziano Matteo Richetti o convergere, a sua volta, sulla candidatura di Martina. Infine, l’area che faceva capo a Matteo Renzi sta per perdere per strada anche i Giovani Turchi di Matteo Orfini, fino a ieri pasdaran del renzismo, che potrebbero lanciare una propria candidatura autonoma (la governatrice dell’Umbria Catiuscia Marini) o appoggiare anche loro quella di Martina.

 

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Si potrebbe dire che si tratta di una ‘sana’ reazione di rigetto all’età del renzismo, il che, peraltro, ci sta pure. Ma qui giunge in aiuto il contorto e complesso Statuto del Pd per capire cosa sta bollendo nel fronte degli anti-renziani. Lo Statuto prevede che il congresso si svolga in due fasi: alla prima, quella del voto tra gli iscritti (a far legge sarà, quasi sicuramente, la data del 31 dicembre 2018), accedono tutti i candidati che abbiano raccolto almeno il 10% dei voti all’interno dell’assemblea nazionale uscente o un numero di iscritti al partito compreso tra 1500 e 2000 persone distribuite in non meno di cinque regioni e/o province autonome appartenenti ad almeno tre delle cinque circoscrizioni elettorali per il Parlamento europeo (alla candidatura bisogna accompagnare un programma, quella che ai tempi del Pci si chiamava mozione congressuale). Insomma, tutti o quasi hanno diritto di accedere e di correre. Ma alla seconda fase, quella delle primarie ‘aperte‘, dove votano sia gli iscritti sia i semplici cittadini simpatizzanti e non (purché firmino una dichiarazione di intenti di adesione al Pd e versino un piccolo obolo per le spese, di solito 5 euro), concorrono solo i primi tre classificati alla prima fase, quella degli iscritti, dopo la ratifica delle Convenzioni provinciali degli iscritti che concorrono a formare, sulla base di liste collegate a questo o quel candidato, la futura Convenzione nazionale. I tre candidati più votati devono aver ottenuto, però, almeno il 5 per cento dei voti, o almeno il 15% dei voti in non meno di cinque regioni e/o province autonome, per poter passare alla seconda fase, quella della primarie aperte. Quindi, in buona sostanza, possono arrivare alla seconda fase, quella delle primarie aperte, solo i primi tre candidati. Ma, questa volta, lo ‘sbarramento’ posto dallo Statuto tra primo e secondo turno delle primarie potrebbe non bastare per ottenere eletto, nella seconda fase, quella delle primarie aperte, per vedere un segretario eletto ‘solo’ dentro le primarie. Infatti – e qui sta la ‘gabella’ che potrebbe annullare l’effetto della candidatura Minniti, ove mai questa prendesse piede  – se nessuno dei tre candidati ammessi alla seconda fase dovesse ottenere la maggioranza assoluta nelle primarie aperte, il candidato sarebbe scelto dai delegati all’Assemblea nazionale con un ballottaggio a scrutinio segreto tra i due candidati che hanno ottenuto più delegati in base alle liste che si sono presentate collegate a ognuno dei candidati.

 

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Il governatore del Lazio Nicola Zingaretti

Data per scontata la candidatura di Zingaretti e per molto probabile quelle dell’ex ministro Marco Minniti ma anche dell’attuale segretario, Maurizio Martina, oltre ai – già tanti – candidati ‘minori’ (l’ex lettiano, oggi alfiere dell’area di Michele Emiliano, Francesco Boccia; l’ex renziano Matteo Richetti, l’ex ministro Cesare Damiano e il giovane outsider Dario Corallo, romano e figlio di un giornalista dell’Ansa in pensione, Paolo Corallo), sarà molto difficile che uno dei tre candidati principali (Zingaretti, Minniti e Martina) superi l’asticella del 50,1% dei voti che garantirebbe, da sola, la proclamazione del nuovo segretario in seno alle primarie. Molto più probabile è, appunto, che, non raggiungendo nessuno di essi il 50,1% dei voti, si debba procedere all’elezione del segretario in seno alla nuova Assemblea nazionale. Catino e organo di massima rappresentanza del Pd all’interno della quale tutti i giochi sono possibili perché, a quel punto, i voti che contano non sono i voti ‘veri’ presi alle primarie, ma i voti dei delegati eletti per le rispettive mozioni che sostengono uno dei tre candidati arrivati al secondo turno.

 

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L’ex ministro agli Interni, Marco Minniti, oggi deputato del Pd

Mettiamo caso, naturalmente solo come ipotesi ‘di scuola’, per ora, che la candidatura di Minniti – sponsorizzata dai renziani, anche se Renzi difficilmente si esporrà in prima persona per evitare di ‘pesare’ troppo con la sua ombra – raccolga il 30-40% dei consensi e quella di Zingaretti un’altro 30-40% con Martina fermo, più o meno, intorno al 10-20%, senza considerare che gli altri candidati, quelli minori, potrebbero raccogliere, ma tutti insieme, intorno al 10% dei voti. Anche se Minniti arrivasse primo, alle primarie aperte, si andrebbe al voto in Assemblea per eleggere il segretario, dove – più dei voti ricevuti alle primarie aperte – contano e, soprattutto, pesano i voti dei delegati delle varie mozioni che andranno a comporre i mille eletti (e aventi diritto di voto) della nuova Assemblea nazionale. E, lì dentro, la soluzione ad oggi più ipotizzabile, è quella di un accordo tra i delegati in capo a Zingaretti, Martina e almeno un altro paio di candidati minori (Damiano e Boccia, soprattutto) per eleggere come segretario, di comune accordo, uno dei due tra di loro. Oppure di scegliere, come nome ‘di garanzia’, un nume tutelare del Pd come è diventato, oggi, Paolo Gentiloni. In ogni caso, l’accordo ‘tagliafuori’ contro Minniti avrebbe effetto e il ‘nuovo’ Pd sarebbe definitivamente ‘de-renzizzato’. Certo, si tratta di un’ipotesi di scuola e, soprattutto, maliziosa, ma forse non lontana da quello che potrebbe succedere nel Pd, anche se, ovviamente, è meglio aspettare ancora qualche giorno per sapere con precisione i nomi di tutti i candidati. 


NB: questo articolo è stato pubblicato in forma originale per questo blog il 29 ottobre 2018.