I primi guai di Zingaretti. Casse vuote, conteggio dei delegati, nomine interne e liste alle Europee

I primi guai di Zingaretti. Casse vuote, conteggio dei delegati, nomine interne e liste alle Europee

5 Marzo 2019 0 Di Ettore Maria Colombo

Zingaretti alle prese con i primi guai. Casse vuote, conteggio dei delegati, nomine interne da fare e liste alle Europee da stilare

 

Il nuovo corso della segreteria Zingaretti, passata la sbornia della vittoria (netta e incontestabile per numeri e partecipazione) inizia a trovare i suoi primi intoppi e le sue prime difficoltà.Dopo l’incontro con il governatore del Piemonte, Sergio Chiamparino, per pronunciare il suo sì alla Tav, Zingaretti si è dovuto immergere, volente o nolente, nei problemi interni che affliggono il Pd

 

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NB: Qui un’analisi dei numeri della vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie del 3 marzo: Speciale Primarie Pd/5. Zingaretti stravince su Martina e Giachetti. Come sarà il ‘nuovo’ Pd ) mentre qui trovate un ritratto del nuovo segretario del Pd (Speciale primarie Pd/1. Chi è Nicola Zingaretti, da dove viene, chi lo appoggia e un’intervista )

 

I problemi sono tanti. Vanno dalla gestione dei gruppi parlamentari, dove i fedelissimi di Zingaretti sono pochi e i pasdaran renziani ancora in buon numero, al conteggio dei delegati per l’Assemblea nazionale, che procede a rilento, compresa l’assegnazione delle relative quote, alla ristrutturazione interna del partito che ha bisogno di tempo.

Il nuovo tesoriere, a sorpresa, è Luigi Zanda

 

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L’ex capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda

 

Intanto, arriva la prima nomina ed è una vera sorpresa. Il nuovo tesoriere del partito, al posto di Francesco Bonifazi, renzianissimo che oggi ha dato un’intervista al Corsera per annunciare, in anticipo, che avrebbe rimesso il suo mandato e anche per dire che lui resterà “fedele a Renzi a filo doppio”. Al suo posto, però, non andrà – come tutti avevano scritto – Antonio Misiani, che già aveva ricoperto quell’incarico nella segreteria Bersani e oggi milita nell’area Orlando, ma Luigi Zanda, ex capogruppo dem al Senato nella passata legislatura, uno che alla gestione Renzi, nel partito come al governo, ha fatto vedere i classici ‘sorci verdi’.

Misiani ha preferito rinunciare: non gli sembrava “opportuno”, dice chi lo conosce, accettare un incarico che aveva già ricoperto in una precedente gestione e così Zingaretti, dopo un breve colloquio con Zanda, ha passato a lui la patata bollente. La prima battuta di Zanda è ironica: “È un incarico immaginario perché per fare il tesoriere ci vuole il tesoro ma il tesoro non c’è”.

 

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Il cartello all’entrata dell’Assemblea nazionale del Pd

 

La situazione dei conti dem, infatti, è davvero catastrofica. Tanto per dirne una, l’assemblea di proclamazione del nuovo segretario è fissata per domenica 17 marzo e la domanda sorge spontanea: perché non domenica prossima, cioè subito, come sarebbe stato logico? Risposta: perché domenica prossima l’Hotel Ergife è occupato. E poiché, tra gli alberghi che hanno una sala capiente, è quello l’albergo più “economico”, è stata spostata l’Assemblea, non essendoci i soldi necessari per pagarne un altro più caro. Così sta messo il Pd dopo la cura Renzi che lo ha svuotato nei voti e nelle casse. L’intervista al Corriere del tesoriere precedente, Francesco Bonifazi, è stata vissuta anche con un malcelato fastidio nel giro di Zingaretti perché “ci vuole proprio una faccia di bronzo a parlare dopo aver lasciato un partito che non c’ha nemmeno una lira per piangere”.

 

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Il tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi

 

Bonifazi si difende così: “I conti sono in equilibrio. Dal 2013 ad oggi abbiamo tagliato di quasi il 70% tutti i costi del Nazareno. Poi siamo dovuti ricorrere alla cassa integrazione per tutti i 170 dipendenti. E’ stato il momento più brutto della mia esperienza politica”. “D’altronde – aggiunge – siamo passati da un finanziamento pubblico di circa 40 milioni l’anno a uno tutto privato di 12 milioni. Il prossimo bilancio si chiuderà con una lieve perdita. Un successo considerando i costi della campagna elettorale”.

Certo è che la nomina di Luigi Zanda, ex capogruppo al Senato, esperto di conti che ha seguito in diverse società editoriali, in passato, persona perbene, un moderato, politicamente parlando, è una risposta a quanti dipingono il Pd come il remake dei Ds, con la retorica del ritorno della Ditta. Semmai sta accadendo l’opposto: Paolo Gentiloni come presidente del partito (scelta ormai fatta), Paola De Micheli, l’ipotesi più accredita che circola, a vicesegretario. Tutte figure assai moderate. 

I conti in “sprofondo rosso” del Pd

 

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La tessera del Pd

 

I conti del partito sono in “sprofondo” rosso. Più di 170 dipendenti (185 secondo gli ultimi calcoli) in cassa integrazione (di cui 90 a zero ore), le federazioni locali che boccheggiano e reclamano risorse, la piaga di super consulenze super pagate ai gruppi parlamentari e al partito, 9,5 milioni di euro spesi per la campagna elettorale che doveva sostenere  il Sì al referendum costituzionale e la fine del finanziamento pubblico, deciso dal governo Letta che non ha certo aiutato.

 

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Il Governo Letta

 

Le casse del Pd erano in ‘sprofondo rosso’ – anche se il bilancio, assicura Bonifazi, si chiuderà con un piccolo attivo di circa –  già da tempo, e non solo per le elezioni e per la fallimentare campagna referendaria ma anche per i mancati versamenti di 60 parlamentari, molti dei quali passati a Mdp, che non hanno versato i 1.500 euro mensili dovuti al partito nell’ultimo biennio della passata legislatura, 2016-2017. Il tesoriere Bonifazi aveva scelto la linea dura contro i morosi, facendo partire i decreti ingiuntivi della magistratura per riscuotere il dovuto, decreti che sono andati avanti, in tribunale, in almeno 10 casi e dovrebbero fruttare, in teoria, 1 milione e 600 euro.

Anche nei gruppi parlamentari la situazione è assai critica. Su 140 persone che lavoravano con senatori e deputati ne sono rimaste solo 75, quasi tutte assunte con contratti di solidarietà ed è stato garantito lo stipendio solo fino a dicembre scorso. Poi si vedrà. Ovviamente molto dipenderà anche dal 2xmille del 2018 e da quanti contribuenti decideranno di devolverlo al Pd. I soldi in arrivo dal 2xmille dell’Irpef, che pure sono cresciuti nel 2017 con un incasso di quasi 8 milioni di euro, non sono sufficienti a reggere la baracca. Come pure non bastano quelli del tesseramento, mentre una boccata d’ossigeno arriverà proprio dalle primarie che dovrebbero fruttare introiti superiori ai 3,5 milioni di euro nelle casse del Pd.

 

La “boccata di ossigeno” arrivata dalle primarie

 

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Militanti del Pd in fila per votare ai gazebo per le primarie

 

Un “grande segnale per la democrazia”, le primarie, certo, ma anche, più concretamente, una bella boccata di ossigeno per le casse del partito. Perché oltre ad avere un indiscusso valore politico, gli oltre 1,6 milioni di votanti alle primarie del Pd hanno anche un notevole impatto economico. Impatto difficilmente quantificabile con precisione, ma comunque nell’ordine di alcuni milioni di euro incassati dal Pd ai gazebo di domenica scorsa. Come è noto, ogni elettore delle primarie è tenuto a versare un contributo di 2 euro(minimo) al momento del voto. Con un’affluenza di 1,6 milioni sarebbero circa 3,5 milioni di euro arrivati al Pd. In realtà, però, il calcolo non è così semplice. Perché gli iscritti non versano i 2 euro per votare e perché, al contrario, c’è anche chi, ai gazebo, offre anche di più. Dall’incasso delle primarie, poi, devono essere ovviamente ‘stornati’ i costi per organizzare i gazebo: 7 mila in tutta Italia e anche all’estero con circa 35 mila volontari coinvolti. Qualche tempo fa era circolata la somma di circa 600 mila euro come costo delle primarie 2019, una somma non confermata e probabilmente anche imprecisa in difetto.

Oltre al tesseramento e al 2xmille, gli introiti del Pd, in ogni caso, oggi e per ora, sono dunque garantiti solo dal contributo obbligatorio di 1500 euro al mese che tutti i parlamentari devono versare nelle casse del partito, anche se molti parlamentari, anche oggi, mancano all’appello, e dalle donazioni privateper le quali – per volere dei 5 Stelle – è previsto l’obbligo di trasparenza solo sopra i 500 euro: nel 2017 si contano oltre 9 milioni di euro da persone fisiche, circa 185 mila

da società e cooperative.

 

La fragile pax interna nei gruppi parlamentari

 

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L’aula della Camera dei Deputati

 

La maggioranza ‘zingarettiana’ uscita dalle primarie è, paradossalmente, minoranza nei gruppi parlamentari, frutto dell’era Renzi che compose, con mano ferrea, le liste del Pd alle Politiche. Questo il punto di partenza da cui è partita una discussione interna che ha portato, per ora, allo slittamento della convocazione dei gruppi parlamentari di Camera e Senato. Le assemblee dei gruppi, fissate per oggi dopo l’aula e poi rinviate, devono eleggere i 100 parlamentari da inviare come delegati dentro l’Assemblea nazionale. Dati i rapporti di forza, la minoranza (tra area Martina e area Giachetti) potrebbe essere ‘sovra-rappresentata’. La maggioranza (in Transatlantico si parla già di ‘lodo Franceschini’) avrebbe proposto di eleggere tutti i parlamentari: 160 invece che 100.

Un modo per evitare conte e divisioni, si spiega. Ma da ambienti parlamentari renziani la cosa viene letta così: “Siamo al primo scazzo… Vogliono aumentare i loro numeri”. La discussione è in corso e le riunioni dei gruppi sono state sconvocate per essere riconvocate la prossima settimana.

 

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Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato

 

Intanto, il neo-segretario Nicola Zingaretti ha sentito al telefono i due capigruppo, Andrea Marcucci Graziano DelrioZingaretti non vorrebbe creare sconquassi negli equilibri dem di Camera Senato, confermando in prima battuta Delrio Marcucci, per poi preparare eventualmente il più consueto avvicendamento a metà mandato, quando anche gli equilibri interni ai gruppi parlamentari saranno con ogni probabilità a lui più favorevoli. Ma non è detto che i due presidenti possano decidere di dimettersi nei prossimi giorni non come gesto formale, ma in maniera irrevocabile.

Se questa fosse la loro scelta, alla Camera in pole position per l’avvicendamento ci sarebbe già Andrea Orlando, mentre al Senato – che resta il fortino renziano – tra i papabili c’è il franceschiniano Franco Mirabelli, che era già stato in corsa a inizio legislatura, quando poi gli fu, invece, preferito il fedelissimo dell’ex premier, Marcucci.

Il conteggio dei delegati dell’Assemblea non è ancora finito…

 

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Matteo Renzi parla a un’assemblea del Pd

 

Se è vero che il conteggio del numero dei mille delegati spettanti a ciascuna mozione è difficile e complicato (i delegati sono eletti sulla base di liste bloccate, senza preferenze, e con un meccanismo di calcolo proporzionale che prevede il recupero dei resti) è singolare che, a tre giorni dalle primarie, ancora non si sappia chi sono. Secondo i primi calcoli sulle percentuali ottenute dalle tre mozioni, Nicola Zingaretti avrebbe una larga maggioranza (circa 650 delegati su 1000) mentre i restanti 355 sarebbero divisi così tra Maurizio Martina e Roberto Giachetti: ‘circa’ 250 al primo e 105 al secondo.

Secondo altri calcoli Zingaretti avrebbe una maggioranza di circa 660 delegati e, a spartirsi i restanti 340, la mozione Martina ne avrebbe 220 e quella di Giachetti 120.

 

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Roberto Giachetti, candidato alla segreteria del Pd

 

Peraltro, Giachetti proprio oggi ha diramato una dura nota per ricordare che “smentisco categoricamente la nota apparsa sulle agenzie che cita fonti dem a proposito dei numeri dei delegati della nuova Assemblea nazionale del Pd. Secondo i nostri calcoli i delegati della nostra mozione #sempreavanti saranno non meno di 150”.

Chi ha ragione? Non si sa e si saprà solo nei prossimi giorni perché si tratta, appunto, di numeri ancora provvisori: i dati definitivi non sono stati ancora comunicati dalla commissione Congresso presieduta da Gianni Dal Moro. I conti, come quelli economici, anche in questo caso, non tornano…

 

La nuova segreteria e un ruolo chiave per la De Micheli

 

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Paola de Micheli, coordinatrice della mozione Zingaretti

 

Al Nazareno, Zingaretti porterà quasi certamente con sé Paola De Micheli, che è stata la coordinatrice nazionale della sua mozione, ma non è detto che lo faccia per promuoverla a vice-segretario, carica che, però, potrebbe anche non esserci, oppure che potrebbe essere divisa in due: un ruolo per lei e un altro, sempre come vice-segretario per Stefania Gasparini, presidente provinciale del Pd di Modena, nonché assessore a Carpi, che ha ben figurato in qualche comparsata televisiva. L’alternativa (alla Gasparini, non alla De Micheli) è Valeria Mancinelli, sindaca di Ancona, che potrebbe ricoprire il ruolo di responsabile degli Enti locali. Largo anche, nella nuova Segreteria, ad altre donne. In questo caso si tratta di Marina Sereni, già vicepresidente della Camera, fassiniana, area cui Zingaretti ‘deve’ qualcosa come pure dovrà mettere degli esponenti di Area dem, l’area che fa capo a Dario Franceschini, come a Dems, l’area guidata da Andrea Orlando. E qui potrebbe essere recuperato, con un ruolo specifico sulle Politiche economiche, per la Segreteria, la figura di Antonio Misiani mentre Cesare Damiano (altro ex fassiniano) dovrebbe andare al Welfare.

Zingaretti ha intenzione di aprire la Segreteria del Pd anche verso un’altro fronte, quello dei giovani. Brando Benifei, nome sconosciuto ai più, ma il più giovane europarlamentare italiano (ha 33 anni) dovrebbe, a sua volta, entrare in Segreteria come pure qualche rappresentante della Rete studentesca “Rigenerazione Italia“, dei Giovani democratici (fino a ieri in mano ai renziani) e dei movimenti studenteschi e movimenti Lgbt. 

Per quanto riguarda le nuove minoranze, è escluso che Martina possa diventare vice-segretario. Per il resto, il neo-segretario sembra voler attendere gli equilibri che si svilupperanno anche all’interno delle (nuove) minoranze. Se è nelle cose un dialogo con Martinal’area renziana è in fermento, con accuse reciproche tra martiniani e giachettiani che si rimpallano la responsabilità.

“Il fuoco amico nei confronti del leader – scrive Rudy Francesco Calvo sull’Huffington Post – almeno nei primi tempi, è escluso da tutti, Renzi in primis. Ma non è ancora chiaro se la scelta sarà per il modello pop-corn (cioè lasciar fare a Zingaretti, per essere pronti a colpirlo al primo passo falso) oppure per provare a condizionare le sue scelte dall’interno, anche con una presenza negli organismi dirigenti. Il segretario attenderà le evoluzioni del dibattito interno alla sua minoranza più vivace, per poi prenderne atto e fare comunque le sue scelte in autonomia”. “Di sicuro, – continua Calvo – non darà ascolto alle voci – provenienti proprio dai renziani sostenitori della linea hard – che vorrebbero mettere in dubbio il nome di Paolo Gentiloni come presidente del partito”. La sua elezione da parte dell’Assemblea del 17 marzo è forse l’unico punto fermo esistente nell’organigramma del nuovo Pd.

 

I sospettosi ragionamenti dei renziani dopo la sconfitta

 

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L’ex premier ed ex leader del Pd Matteo Renzi

 

I renziani ora ammettono che “i ragionamenti che facevamo la scorsa settimana non ci sono più, Zingaretti ha almeno 650 delegati su 1000 in Assemblea. Non ci sarà “fuoco amico”, come dice Renzi, anche perché sarebbe impopolare dopo questo risultato”. Dunque, Zingaretti scelga chi vuole come presidente, i renziani non si opporranno all’elezione di Gentiloni, come sembravano orientati a fare. Nessuno di loro commenta nemmeno il coro di plauso che gli ex Pd di Mdp hanno tributato a Zingaretti per l’elezione, anche se la tentazione ci sarebbe. Impossibile, per ora, fare distinguo.

Se ne riparlerà, semmai, a giugno, anche se qualche tensione ci potrà essere al momento della definizione delle liste per le europee: gli uscenti sono in larga parte renziani e non hanno intenzione di farsi da parte, rispetto al nuovo corso, almeno per ora.

 

“Dobbiamo restare umili e uniti” dicono gli zingarettiani

 

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Nicola Zingaretti festeggia al suo comitato i risultati delle primarie del Pd

 

“Dobbiamo essere molto umili e molto, molto, molto uniti”, è il mantra ripetuto dagli zingarettiani. E Zingaretti, per indole personale e per tendenza a conciliare piuttosto che esaltare le differenze, è tentato di rispettarlo fino in fondo, anche nella selezione dei dirigenti. Si trova però a fare i conti con una spinta decisa di molti suoi sostenitori, alla luce anche dei numeri emersi dai gazebo, che vorrebbero assecondare fino in fondo la spinta al rinnovamento espressa dagli elettori dem. Senza compromessi, senza cedimenti. Una posizione espressa soprattutto da quella sinistra interna che in questi anni ha sofferto lo strapotere renziano, negli organi dirigenti e nelle liste elettorali.

Soprattutto, dopo il voto per l’Europarlamento potrebbe aprirsi una forte fibrillazione o una vera e propria crisi di governo. Quello sarà un primo passaggio delicato per il nuovo segretario. Zingaretti esclude ipotesi di alleanze con i 5 stelle e anche il suo antico mentore, Goffredo Bettini, oggi su questo è stato chiaro. Ma i renziani sono convinti che le cose siano più complicate: “Se si apre la crisi di governo, vogliamo vederlo Zingaretti che dice no a un’ipotesi di maggioranza Pd-M5S… E’ chiaro che noi non ci staremmo. Ma in questi casi i ‘responsabili’ si trovano sempre”.

Insomma, una crisi di governo potrebbe riaprire lo scontro interno al Pd che oggi è stato sopito. Dipenderà, appunto, anche dai risultati che farà il partito alle europee.

 

Le liste per le Europee, un difficile gioco a incastro

 

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Benedetto Della Vedova, neosegretario di ‘+Europa’

 

“Ma il governatore del Lazio pensa anche al futuro meno immediato. Ossia quello delle elezioni politiche”, scrive Maria Teresa Meli oggi sul Corriere.it: “Potrebbero anche essere fra un anno”, dice ai suoi il governatore della regione Lazio. Che non si vuol fare trovare impreparato all’appuntamento. Per questa ragione ha deciso di proporre Paolo Gentiloni presidente del partito e, sub judice di nuovi eventi, candidato premier, visto che Zingaretti, al contrario di Renzi, ritiene che il segretario del Pd non debba automaticamente correre per palazzo Chigi. Insomma, Gentiloni sarà il nuovo Prodi”, scrive la Meli.

 

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L’ex Ministro Calenda

 

Eletto segretario formalmente, vedrà subito Emma Bonino, Federico Pizzarotti e Monica Frassoni. Ossia “Più Europa”, le liste civiche che oggi fanno capo a Italia Bene in Comune del sindaco di ParmaFederico Pizzarotti, e i Verdi europei. Il guaio è che sono anche gli stessi che hanno già detto di no a Calenda per un listone unitario. Lui insisterà, pronto anche a mettere in gioco il simbolo del partito.  Se i suoi interlocutori confermeranno il no, il governatore del Lazio (perché tale rimarrà durante la sua segreteria) tenterà la carta dei capilista ad effetto, la maggior parte non di partito: Giuliano Pisapia, nel Nord Ovest, Carlo Calenda al Centro, Massimo Cacciari nel Nord Est, Ilaria Cucchi e un’altra donna da definire. Già, perché quello delle Europee è un altro dossier che il neo segretario del Pd dovrà, prima o poi, aprire. Il traguardo massimo è superare i 5 Stelle, in calo nei sondaggi dove scivolano pericolosamente verso il 20% mentre il Pd ‘vede’, nelle ultime rilevazioni, già il 20%. Quello minimo, ma sempre importante, è riuscire a prendere più consensi delle Politiche. Anche per questo Zingaretti incontrerà presto il segretario della CgilLandini

 


 

NB: Questo articolo è stato scritto in forma originale per questo blog il 5 marzo 2019.