I partiti giocano a scacchi, Mattarella no. L’evoluzione della crisi di governo e le prossime mosse
10 Agosto 2019“Se Giuseppe Conte vuole venire a prendere un caffè al Colle, è il benvenuto. Per il resto, il Presidente, per ora, tace, fino a quando, dentro le Camere, non si sarà aperta la crisi di governo. Lì sì che la palla tornerà qui al Colle e inizieranno le nostre consultazioni”.
Al Quirinale usano l’humor britannico per spiegare la situazione politica a chi, digiuno di diritto costituzionale, pensa che Mattarella possa essere attore ‘attivo’ della crisi in una fase in cui ne è, invece, semplice spettatore, tanto che il Capo dello Stato è volato all’isola della Maddalena per prendersi qualche giorno di riposo.
Sommario
Il Colle attende che il Parlamento parli ecco perché ora tace
Il Colle attende che il Parlamento parli, quando il Parlamento tacerà il Colle parlerà: tradotto, se la sfiducia a Conte verrà confermata dalle Camere, si aprirà lo studio alla Vetrata, dove si tengono le consultazioni, e allora sì che il Colle gestirà in prima persona la crisi. La palla, dunque, si sposta a palazzo Madama e Montecitorio, ancora a tutt’oggi deserte, perché, ignari e incauti, i parlamentari se ne erano andati in ferie (fissate, in teoria, dai primi di agosto fino al 2 settembre).
La crisi, in buona sostanza, è stata ‘parlamentarizzata’, ergo la parola ora passa alle Camere. La conferenza dei capigruppo del Senato è convocata per lunedì, quella della Camera per martedì. Lì verranno prese le decisioni necessarie per incalanare la crisi di governo nei giusti e corretti binari.
Intanto, ogni partito si è messo a giocare a scacchi…
La Lega ha fatto la sua mossa, presentando una mozione di sfiducia a Conte: va calendarizzata entro tre giorni dal suo deposito, e discussa entro venti e non oltre. In apparenza, così si allungano solo i tempi. Ma il premier, in serata, fa sapere di volersi presentare al Senato (è obbligato a farlo lì perché lì è nato il suo governo, ha preso la sua prima fiducia) per ascoltare quanto hanno da dire i diversi gruppi e fare le sue ‘comunicazioni’ alle Camere, ‘passaggio’ che preclude tutti gli altri (mozioni di sfiducia a lui o individuali a Salvini, altri voti, etc.).
Conte preferirebbe, spiegano fonti parlamentari, presentarsi alle Camere solo dopo aver rispettato alcuni impegni istituzionali come il G7 che si aprirà a Biarritz il 24 agosto e dopo aver comunicato alla Ue il nome del commissario italiano, che a questo punto sarebbe di sua diretta indicazione.
Il dibattito parlamentare seguente potrebbe – come non potrebbe, attenzione – essere seguito da un voto e Conte salire al Colle per rassegnare le dimissioni anche in assenza di un voto di sfiducia.
Anche i 5Stelle hanno fatto la loro mossa…
I 5Stelle, che si sono riuniti ieri a livello di stato maggiore, hiedono che le Camere si riuniscano ‘anche’ per votare la ‘loro’ riforma, il taglio del numero dei parlamentari, anche ‘prima’ della sfiducia a Conte.
Ma se Conte si dimette e le Camere vengono sciolte, tale passaggio, banalmente, “non si può fare”, segnala il costituzionalista e deputato dem Stefano Ceccanti. In buona sostanza, la discussione sulle dimissioni di Conte o la mozione di sfiducia della Lega ‘preclude’ tutte le altre discussioni.
Taglio dei parlamentari e sfiducia a Salvini? Precluse
Neppure, peraltro, con un governo di minoranza elettorale si può lavorare perché “con le Camere sciolte e un governo privo di fiducia, le Camere, banalmente, non possono operare e il governo può prendere solo decisioni di ordinaria amministrazione, sbrigare gli affari correnti, o fare decreti straordinari per eventi eccezionali (terremoto, guerra, etc.), ma non tutto il resto della normale attività ordinaria come presentare leggi o convertire decreti. Le Camere, cioè, restano inattive. Né ha alcun senso pensare di compiere altri atti parlamentari prima di discutere la sfiducia al governo che, invece, preclude tutti gli altri atti legislativi, compresi quelli già calendarizzati. Una volta votata la sfiducia, non c’è più il governo, a prescindere che ci sia un premier in carica dimissionario o un premier di un governo di minoranza, battuto in Parlamento. Non si sono, di fatto, più le Camere…”.
Identico ragionamento per la mossa del Pd: presentare una mozione di sfiducia individuale a Salvini e pretendere che, dicono i dem, vada discussa e votata ‘prima’ della mozione di sfiducia a Conte. Anche in questo caso, trattasi di pura propaganda: la mozione di sfiducia al premier e anche le sue ‘comunicazioni’ alle Camere hanno la priorità e una vera corsia preferenziale su tutto il resto. E, una volta che la sfiducia passa o il premier si è dimesso, tutto il resto decade, comprese le mozioni parlamentari già calendarizzate e di vario argomento presentate dai vari gruppi.
I rischi che la Lega si prende: gli altri possono metterla ‘sotto’
Tornando, invece, alla mozione di sfiducia, il regolamento del Senato non prevede una scadenza per la discussione e il voto su di essa: decide la conferenza dei capigruppo ed è lì che, a maggioranza, i vari gruppi devono trovare un’intesa. La Lega vuole andare in Aula subito, ma la convocazione del Senato slitterà probabilmente fino a dopo Ferragosto (il 19 agosto è la data più probabile), con tutti gli altri gruppi che, realisticamente, metteranno la Lega in minoranza, almeno sul calendario.
Ma in Aula potrebbero entrare in gioco altri ‘giochi’ da parte degli altri gruppi parlamentari: infatti, l’M5S ha 109 senatori e, tra ex dissidenti finiti nel gruppo Misto (4) e senatori di LeU (7), gode, sulla carta, di circa 120 voti, cioè della maggioranza relativa, in Aula. Se altri gruppi uscissero dall’Aula, a partire dal Pd, i voti contrari della Lega e di Fratelli d’Italia (e anche sommando quelli degli azzurri) non basterebbero per mandare a casa Conte. Infatti, sulle semplici ‘comunicazioni’ del premier, basta la maggioranza semplice (cioè che i sì battano i no), al netto del quorum dei presenti (161), e non la maggioranza assoluta (161 voti su 321, appunto). Maggioranza assoluta che non serve neppure per votare la mozione di sfiducia della Lega, che non avrebbe bisogno di 161 voti su 321, ma solo della maggioranza semplice. Vale, infatti, quanto prescrive la Costituzione: solo in alcuni, specifici, casi (riforme costituzionali, pareggio di bilancio, ratifiche di trattati internazionali) è scritta, nero su bianco, la necessità di ottenere la maggioranza assoluta dei voti, ma sul voto di fiducia no. Quindi, come ricorda sempre, e giustamente, il professor Ceccanti, “anche nel caso di voto di fiducia, basta che i sì battano i no e, naturalmente, che sia garantito il numero legale, non serve altro. In altri Paesi, come in Francia, la maggioranza assoluta sulla mozione di sfiducia è richiesta, in Italia no“.
Se Conte si dimette ‘davvero’, la parola passa a Mattarella
Se, invece, tutto va come deve andare e Conte si dimette, allora sì che entra in campo Mattarella. Insomma, molti giochi sono ancora possibili, a livello di tattica parlamentare. Se, invece, tutto dovesse andare liscio (per la Lega, ovviamente, che punta alle elezioni anticipate), una volta che, incassata la sfiducia o dimessosi per sua scelta, il premier salirà al Quirinale per rassegnare il suo mandato, allora sì che partiranno le consultazioni al Colle, consultazioni che si prevedono veloci.
Tre le strade percorribili e una ‘nuova’. La prima è un mandato esplorativo, affidato al presidente del Senato, per prassi, per verificare se ci sono i margini per far nascere un governo diverso dall’attuale su nuove basi (Pd+M5S+altri? oppure centrodestra+pezzi di M5S?), prima di dare un incarico pieno.
Seconda strada, ‘obbligata’ se verrà riscontrata l’impossibilità di trovare un’altra maggioranza, scatterà la decisione, presa in solitudine da Mattarella, di firmare il decreto di scioglimento delle Camere (un DpR) che provoca, come immediata conseguenza, un identico decreto del presidente del Consiglio, controfirmato dal Capo dello Stato, per indire le elezioni in un arco di tempo compreso tra i 45 e i 70 giorni (di solito ne servono 55-60 a causa del voto all’estero).
Terza strada, data l’assenza di un nuovo esecutivo che traghetti il Paese al voto, vorrebbe dire far restare in carica il governo Conte, pur dimissionario. Ma le opposizioni premono sull’inopportunità del doppio ruolo di Salvini, candidato premier e titolare del Viminale, che si troverebbe così a gestire la macchina elettorale. Una ‘preoccupazione’ che è anche nei pensieri di Mattarella.
Il governo ‘tecnico-elettorale’ di minoranza, la via più facile
Ed ecco che spunterebbe fuori, a quel punto, la quarta strada, quella che raramente viene messa in pratica, nella prassi repubblicana (pochi i precedenti: il governo di minoranza Fanfani IV, 1987). Formare un governo ‘tecnico-elettorale’, che si potrebbe definire di minoranza, perché andrebbe davanti alle Camere con atteggiamento suicida, cioè ‘solo’ per farsi battere, ‘non’ farsi dare la fiducia, ma per chiedere di non averla, o comunque vedersela negare. Un governo che nascerebbe morto e che servirebbe solo ad accompagnare il Paese, in questi due mesi, fino al voto anticipato.
Un governo del genere – forse guidato dall’attuale ministro del Tesoro, Giovanni Tria, volto già conosciuto e rispettato in Europa e dai mercati, quindi tranquillizzante – non potrebbe prendere decisioni operative, resterebbe in carica – come, eventualmente, il governo Conte dimissionario – solo per il disbrigo degli ‘affari correnti’ e per accompagnare il Paese alle urne anticipate. Le procedure per avvicinare la data del voto dovrebbero essere, anche per questo, molto accelerate.
La data più probabile per votare, a questo punto, diventerebbe quella del 26 ottobre o, al massimo, del 3 novembre, sempre posto – e non concesso – che le Camere vengano sciolte il 26/27 agosto.
Ma la data del voto anticipato dipende dal timing della crisi
Potrebbero, dunque, le urne, tenersi a ottobre (il giorno cerchiato di rosso è il 27) o ai primi di novembre, il 3. Ma, chiuse le urne, ci vorrà almeno un mese prima che si formi un nuovo esecutivo e che entrino in funzione e a pieno regime le nuove Camere perché, all’ingrosso, tanto serve per convocarle, proclamare gli eletti, eleggere i capigruppo e i presidenti delle Camere, dare il via alle consultazioni del Capo dello Stato e, subito dopo, a quelle del presidente del Consiglio incaricato. Se tutto filasse liscio il nuovo governo potrebbe nascere a metà novembre o ai primi di dicembre e ingaggiare la corsa contro il tempo per varare la manovra e evitare l’esercizio provvisorio dei conti.
Ma il rischio di un ‘governissimo’ continua ad aleggiare
Tutti ne parlano e tutti se lo rinfacciano, il possibile inciucio
Ecco perché Salvini grida all’inciucio tra Pd e M5S, i 5Stelle replicano acidi, il Pd smentisce sdegnato, ma la prospettiva gira, siti e giornali ne parlano, l’idea monta fino a quando l’Huffington Post non ne attribuisce la volontà a Matteo Renzi che avrebbe proposto il siffatto ‘ribaltone’ a Di Maio per mettere nell’angolo, oltre che all’opposizione, Salvini, salvare la legislatura, evitare il voto e, già che ci si trova, cambiare la legge elettorale introducendo il sistema proporzionale per cercare di contenere i danni dal combinato disposto che deriverebbe dalla riforma Fraccaro (il taglio del numero dei parlamentari) e dall’andare al voto con il Rosatellum. Renzi smentisce duro, secco, ma che la ‘tentazione’ alligni dentro il grosso delle truppe parlamentari dem renziana è un dato di fatto.
La prospettiva del ‘governissimo’ continua ad aleggiare e lo farà fino al dibattito con Conte. Lunedì M5s e Lega armeranno le truppe, in due assemblee di gruppo, i pentastellati la mattina e i leghisti la sera. Nelle opposizioni la notizia viene guardata con sospetto: non è – ci si chiede – che alla fine i gialloverdi torneranno insieme, magari con un totale riequilibrio di forze nel governo?
Ma Salvini non torna indietro: sarà lineare, assicurano i leghisti. Mentre più agitate sono le acque in casa Cinque stelle. Si racconta, appunto, di diversi tentativi di contatto, negli ultimi giorni, dei parlamentari pentastellati con i colleghi dem. Su un asse in particolare viaggerebbe una traccia di dialogo: quello che va da Roberto Fico a Dario Franceschini, passando appunto per Matteo Renzi.
Le voci di un accordo ‘impossibile’ M5S-Pd si rincorrono
Si parla di un colloquio in giornata tra il presidente della Camera e Dario Franceschini, anche se i diretti interessati smentiscono. I Cinque stelle dei contatti con i dem dovrebbero parlare lunedì in assemblea. Sullo sfondo c’è, appunto, l’idea, per ora teorica e ardua da realizzare, di un tentativo in Parlamento per sostenere un esecutivo di transizione che faccia la riforma per il taglio dei parlamentari e metta al sicuro i conti pubblici. Zingaretti, ovviamente, smentisce sdegnato ci sia ogni ipotesi di questo genere.
Ma chi potrebbe starci? Oltre ai peones senza gruppo condannati alla non rielezione, secondo le elucubrazioni di molti, ci starebbero, appunto, anche i renziani che temono di essere tagliati fuori dalle liste di Zingaretti, qualche forzista privo di speranze e il grosso della truppa pentastellata.
I renziani frenano: tutto prematuro. E da FI assicurano che, finché Salvini terrà accesa la fiammella di una possibile alleanza, gli azzurri terranno la linea pro-voto di Berlusconi. In un accavallarsi di piani, è già di elezioni che si ragiona nei partiti. Con i movimenti al centro, i renziani nel Pd tentati dalla corsa solitaria, FI e Fdi in pressing su Salvini per l’alleanza. Ma questa è già un’altra storia...
NB: Questo articolo è stato scritto e pubblicato in forma originale per il blog il 10 agosto 2019