Legge elettorale, “eppur si muove!”. Restano solo due le proposte in campo, due anche le incognite referendum
14 Novembre 2019Sommario
La riforma della legge elettorale inizia a fare passi in avanti
Sarà il clima interno all’alleanza di governo giallorossa che è pessimo. Sarà che la Lega si sente già in tasca la vittoria in Emilia-Romagna e ritiene che, subito dopo, il governo cadrà e si andrà a nuove elezioni politiche anticipate tanto che Salvini – che di legge elettorale di solito non vuole neppure sentire parlare – si limita a dire “se c’è il maggioritario mi siedo a discutere con tutti, altrimenti c’è il referendum, no al proporzionale”.
Sarà che gli impegni vanno mantenuti e la maggioranza di governo, dopo l’approvazione del taglio dei parlamentari e con un referendum ‘anti-taglio’ che incombe, se verranno raccolte le firme, si era promessa di portare avanti, e in fretta, il ‘tavolo’.
Certo è che la riforma della legge elettorale (vigente, ad oggi, il Rosatellum) ha fatto un insperato passo avanti. Il clima, nel Transatlantico di Montecitorio, era frizzante e un tema che sembrava lontano e rinviabile sine die – la riforma della legge elettorale, appunto – è diventato attuale.
Clima frizzante alla Camera. Il tavolo sulla riforma è partito
Ieri pomeriggio si è riunito, nella sala Tatarella di palazzo Montecitorio, il vertice di maggioranza sulla legge elettorale.
Sotto la regia del ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà (M5S), erano presenti i capigruppo o comunque i rappresentanti di tutti i partiti di maggioranza (M5S, Pd, Iv e LeU) e la sottosegretaria Simona Malpezzi (Pd).
Il vertice dura due ore e produce fatti nuovi. Innanzitutto un timing, un cronoprogramma preciso quanto ambizioso: due incontri nelle prossime due settimane con l’obiettivo di incardinare l’esame di una nuova legge elettorale nella Commissione Affari costituzionali della Camera tra il 16 e il 20 dicembre, cioè a manovra economica ancora in corso. Un timing che, se tutto filasse liscio, potrebbe vedere arrivare, in Aula della Camera, un testo unificato per la seconda settimana di gennaio 2020.
Due gli esclusi: proporzionale puro e maggioritario secco
Ma la ‘ciccia’ vera, scritta nero su bianco anche nel comunicato ufficiale, è la “delimitazione del campo di gioco” come la chiama il capogruppo di LeU, Federico Fornaro. Le ‘ali estreme’ delle diverse proposte di riforma che erano state vagliate sono state, infatti, rigettate dal tavolo della maggioranza: via i collegi uninominali maggioritari (modello inglese) e via il proporzionale puro, stile Prima Repubblica, quello che prevedeva uno sbarramento che non superava l’1%.
Come recita il documento ufficiale prodotto, dopo la riunione, dai soci della maggioranza e vidimato dal ministro D’Incà, “in coerenza con il programma di Governo che si è posto l’obiettivo di incrementare le garanzie di rappresentanza democratiche, assicurando il pluralismo politico e territoriale, si è convenuto che non siano praticabili soluzioni fondate su collegi uninominali maggioritari né modelli proporzionali senza correttivi”. Due modelli, dunque, esclusi per sempre.
Certo, le distanze, all’interno della maggioranza, restano, ma si limitano a due soli modelli. Tolte le ‘ali’ estreme, citate, infatti, sul campo restano solo due soluzioni e un impianto condiviso: la cornice, infatti, è un sistema di base proporzionale, come in realtà è – anche se poche volte si è detto e scritto – lo stesso Rosatellum e come era pure il famigerato Porcellum mentre un ritorno, per capirci, al Mattarellum, non è nei desiderata di nessun socio di governo (ma della Lega sì).
Due soli i modelli in campo: proporzionale con sbarramento alto e doppio turno ‘nazionale’
La prima proposta è quella di un sistema proporzionale senza premio di maggioranza e senza collegi uninominali, basato su liste bloccate – e, probabilmente, assai lunghe – ma con una soglia di sbarramento decisamente alta, fissata al 5%.
La seconda proposta è quella di un sistema molto simile alla modalità con cui, in Italia, si eleggono i sindaci sopra i 15 mila abitanti: il sistema, di base, resta proporzionale, ma prevede un premio di maggioranza da assegnare al primo partito o coalizione che, al primo turno, supera il 50, 1% dei voti o da assegnare al secondo turno.
In questo caso, andrebbero al ballottaggio le due coalizioni (o partiti) meglio piazzati al primo turno, sarebbero consentiti gli apparentamenti tra partiti da effettuarsi tra il primo e il secondo turno e il premio consisterebbe, in ogni caso, nella possibilità di ottenere, con il 50,1% di voti, presi al primo turno o, se nessuno lo raggiunge, al ballottaggio, il 55% dei seggi. Un premio, dunque, che favorisce e invoglia sia le coalizioni che gli apparentamenti ma che non intacca la rappresentanza proporzionale dei partiti che eleggerebbero i parlamentari (esclusi quelli ‘in quota’ premio) con un sistema proporzionale e uno sbarramento basso al 2% circa. Le liste degli eletti sarebbero bloccate.
Il Pd preferisce il ballottaggio nazionale come per i sindaci
Detto delle due ipotesi, le preferenze dei partiti, naturalmente, divergono su quale dei sistemi preferire. Il Pd, al tavolo di confronto, ha portato entrambe le proposte (proporzionale con soglia alta e doppio turno di coalizione) ma indicando nella seconda ipotesi “la nostra opzione preferenziale”.
Il Pd, cioè – spiegano fonti del Nazareno – ritiene “preferibile ragionare su un sistema con premio di maggioranza alle coalizioni, analogo a quello in vigore nei comuni medio-grandi”. In casa dem si ragiona, dunque, su un modello che prevede un primo turno in cui si presentano singole liste o coalizioni, ma se nessuno raggiunge il 50% si torna a votare e si possono anche fare coalizioni ulteriori con il sistema degli apparentamenti mentre il premio di maggioranza non dovrebbe superare il 55%.
Due paletti necessari per superare le possibili obiezioni della Consulta che bocciò l’Italicum di Renzi perché non prevedeva, al secondo turno, una soglia di accesso al ballottaggio (ad esempio un partito che avesse preso il 20% al primo turno poteva arrivare al 55% di seggi). L’imperativo, spiegano dal Pd, è che si metta in campo un sistema elettorale che garantisca stabilità e governabilità. I dem, però, non escludono nemmeno l’ipotesi di un sistema elettorale con “significative soglie di sbarramento”, cioè non sono pregiudizialmente contrari al proporzionale puro.
Ma, da mesi, il segretario del Pd Nicola Zingaretti – in questo d’accordo con il premier Giuseppe Conte – accarezza l’idea di un sistema maggioritario a doppio turno nazionale tra le prime due coalizioni: un modo per rendere più strutturale e competitiva l’attuale coalizione di governo costruendo un fronte “antisovranista” e anche un modo per depotenziare la novità della “terza via” di Italia Viva. Un modo, cioè, per ‘costringere’ l’M5S ad apparentarsi e a rendere ‘strutturale’ l’attuale coalizione di governo, riversando i propri voti sul candidato del centrosinistra che sarà quello l’unico e il solo che, nei desiderata del Pd, arriverà al ballottaggio con la destra. Ma dopo il voto regionale in Umbria che ha visto la debacle dell’asse M5s-Pd, il capo politico del Movimento, Luigi Di Maio, si è messo di traverso, più di quanto già in precedenza, spingendo per una soluzione proporzionalista.
I 5Stelle restano ancorati al sistema proporzionale
I pentastellati restano, infatti, ancorati a un sistema proporzionale con soglia alta (che Leu non vuole). Il doppio turno viene visto come il fumo negli occhi dai pentastellati, che spingono sul proporzionale con sbarramento alto, ed è da li’ che intendono partire. I 5 stelle, viene riferito, lo avrebbero detto chiaro e tondo agli alleati, nella riunione.
Su questo punto si è registrato un attrito. Una distanza che, pur nel clima positivo della riunione (come riferisce chi c’era), è stata evidente e che si è manifestata anche nella stesura del documento comune. Il Pd voleva far inserire, oltre che al concetto di ‘rappresentanza’, anche quello di ‘governabilità’. Alla fine, la parola ‘governabilità’ nel documento non c’è, ma, dicono i dem, “l’importante è che la strada del doppio turno sia rimasta aperta”.
Anche perché il Pd ha portato dalla sua Leu su questa soluzione grazie, appunto, alla soglia di sbarramento bassa al primo turno che prevede il sistema di ballottaggio nazionale. Certo, Fornaro – in un’ottica politica di alleanza Pd-LeU-M5S – ammonisce che “due secchi portano più acqua di uno solo”, intendendo che un sistema proporzionale permette meglio di raccogliere voti a entrambi gli schieramenti in campo e che, oggi, sostengono la maggioranza di governo (Pd+LeU da un lato e M5S dall’altro) per poi trovare le giuste convergenze in Parlamento in modo simile alla gestazione del governo giallorosso.
Ma – ragiona il costituzionalista ed esperto della materia del Pd, Stefano Ceccanti – “a un partito piccolo se gli poni la scelta tra uno sbarramento alto e uno basso, preferirà sempre quello più basso che, in questo caso, il doppio turno prevede, anche grazie alla possibilità dell’apparentamento”. Insomma, anche a LeU, come a Italia Viva, uno sbarramento basso al primo turno, come è previsto nel sistema di ballottaggio nazionale, potrebbe far molto più comodo e gola dello sbarramento alto.
Italia Viva non si sbilancia, ma ‘tifa’ per il proporzionale
Solo Italia Viva, per ora, non si sbilancia: “Per noi entrambi i modelli hanno degli aspetti positivi. Vediamo come procede il lavoro, siamo appena all’inizio e il clima di oggi è stato davvero costruttivo, sono convinto che avremo il testo base per il 20 dicembre”, dice Marco Di Maio, ieri unico rappresentante di Italia Viva alla riunione vista l’assenza dei capigruppo Davide Faraone e Maria Elena Boschi.
Italia Viva fa sapere che “è pronta a discutere nel merito le proposte in campo” e che dice “no” solo al “sistema spagnolo (basato su circoscrizioni piccole che sfavoriscono e sotto-rappresentano le formazioni minori, ndr.) che rischia, anche alla luce della riduzione del numero dei parlamentari, di non essere adatto a perseguire gli obiettivi di assicurare rappresentanza e pluralismo politico”. Ma il sistema spagnolo non è mai stato realmente nel novero delle possibilità. Si tratta, cioè, solo di un giro di parole per dire di ‘no’ a soglie di sbarramento alte e che potrebbe significare, magari più avanti, anche l’apertura al doppio turno di ballottaggio nazionale che, appunto, assicura una soglia di sbarramento bassa al primo turno.
Insomma, “in Italia Viva c’è chi pattina sui sistemi elettorali” dice un membro dell’incontro come a voler indicare che “i renziani sono per il proporzionale con soglie basse, ma vengono da una cultura maggioritaria e non hanno ancora il coraggio di dirlo apertamente e quindi di fare brutta figura…”.
Nel Pd, però, subito iniziano i distinguo come quelli di Orfini
Appena finita la riunione, però, nel Pd inizia il solito riposizionamento e contorcimento tra aree. Il primo a smarcarsi è Matteo Orfini, capofila dei Giovani Turchi e oggi all’opposizione della segreteria Zingaretti, che resta, e lo ribadisce, a favore di un sistema proporzionale con soglia al 5%.
Ma Zingaretti si è sempre detto contrario al proporzionale puro e – in questo in sintonia con gli ex renziani rimasti nel Pd, quelli di Base riformista, di cui fa parte Ceccanti – ha sempre cercato di difendere la vocazione maggioritaria per rispettare il mantra del Pd fondato da Veltroni e Prodi.
L’imperativo categorico di tutti è uno: farsi trovare pronti…
Al di là dei tecnicismi, il tema della riforma elettorale si intreccia con quello delle alleanze, ma soprattutto con l’eventualità di un ritorno anticipato al voto. E nella maggioranza c’è chi osserva che la accelerazione evidente nella trattativa sulla legge elettorale nasconde anche l’intenzione di farsi trovare ‘pronti’ in caso la situazione politica precipitasse, subito dopo il varo della manovra. Pendono anche la questione del taglio dei parlamentari e della sua entrata in vigore, se si terrà o meno il referendum popolare confermativo di una legge che, a oggi, è ‘sospesa’.
La revisione del Rosatellum, infatti, si è resa necessaria per adeguare il sistema elettorale al ridotto numero dei parlamentari dopo il via libera definitivo alla riforma costituzionale voluta dal M5s l’8 ottobre scorso. Infatti, il ‘combinato disposto’ del Rosatellum e del taglio dei parlamentari comporta la distorsione della rappresentanza, specie al Senato, sia dei seggi a disposizione di forze medio-piccole (anche del 10%!) che di regioni piccole e medie che avrebbero pochi senatori.
Prima incognita. Il referendum ‘anti-taglio’ dei parlamentari
E al Senato, non a caso, prosegue la raccolta firme (sono già a quota 50, sulle 64 necessarie) per il referendum anti-taglio che vorrebbe dire far slittare di almeno sei mesi la riforma. Tutti, maggioranza e opposizione, attendono di capire se la consultazione popolare si svolgerà. Gli scenari che si potrebbero verificare sono infatti due. Se il referendum non si tenesse, la legge per la riduzione dei parlamentari entrerebbe in vigore il 12 gennaio e poi dovrebbero passare solo altri sessanta giorni per ridefinire i collegi: dal 12 marzo in poi, dunque, se il governo cadesse, si potrebbero sciogliere le Camere con la certezza di votare eleggendo ‘solo’ 600 parlamentari con la riforma a regime. Se, invece, il governo cadesse prima di quella data, o se si tenesse il referendum, si eleggerebbero tutti e 945 i parlamentari come è ora perché, dato che il referendum confermativo non potrebbe svolgersi prima del maggio 2020, l’entrata in vigore della riforma slitterebbe di qualche mese: eventuali elezioni con il nuovo sistema si potrebbero dunque svolgere solo in autunno.
Ma ciò vorrebbe dire restare senza governo per troppo tempo. E Mattarella ha fatto capire chiaramente che, se il governo Conte II cadesse, scioglierebbe le Camere. Dunque, anche se il governo cadesse entro maggio, la legge di riduzione dei parlamentari non entrerebbe in vigore e si voterebbe eleggendo gli attuali 945 parlamentari. Chi ritiene, nel Pd, in Italia Viva e nel M5s, che il governo debba proseguire nel suo lavoro, dunque, sta valutando se sia meglio che il referendum si tenga o non si tenga. Se il referendum si tenesse e la legge del taglio dei parlamentari non entrasse subito in vigore, i parlamentari potrebbero essere ‘tentati’ a rischiare a non far durare la legislatura, accettando le urne anticipate, perché molti di loro potrebbero cercare di rientrare in Parlamento: hai più chances di essere eletto se i posti sono 945 che non se si riducono solo a 600, è ovvio.
Invece, se il referendum non si tenesse e la riforma del taglio dei parlamentari andasse a regime, i parlamentari sarebbero tentati dalla possibilità di allungare la legislatura il più possibile, evitando la crisi di governo, perché, con il taglio a regime, i posti per essere eletti si ridurrebbero di molto, a prescindere dalla legge elettorale che venisse adottata.
Il rischio di una scelta difficile per il Capo dello Stato
In ogni caso, deciderà il Capo dello Stato: potrebbe avere il cruccio di mandare il Paese al voto per eleggere un Parlamento che, una volta che il referendum si terrà e che passerà, come è probabile, il sì al taglio, ne verrebbe, di fatto, delegittimato? Forse, ma il Presidente ha già fatto trapelare che, in caso di caduta dell’attuale esecutivo, non permetterebbe al Paese di rimanere in stallo e scioglierebbe le Camere. Quindi, se il referendum si tenesse, si voterebbe con le vecchie norme, eleggendo cioè 945 parlamentari, un’assicurazione sulla vita in più per chi spera di rientrare.
Ma per il momento tutte queste sono solo ipotesi, il governo è in sella e deve affrontare l’indifferibile compito di varare la manovra per il 2020; dopodiché nulla è scritto. Non si sa se il governo cadrà, magari dopo le elezioni regionali in Emilia, per iniziativa di chi e quali saranno le posizioni dei partiti. Il Presidente Mattarella ha già più volte dimostrato di voler procedere solo alla luce dei fatti reali che gli vengono presentati, senza poter prefigurare nulla delle sue possibili mosse.
Seconda incognita. Il referendum maggioritario della Lega
La seconda variabile impazzita che può cambiare le carte in tavola è il referendum per introdurre un sistema maggioritario secco proposto dalla Lega, se verrà ammesso. Infatti, sempre per il mese di gennaio è atteso il pronunciamento della Consulta.
I giudici dovranno decidere sull’ammissibilità del quesito referendario proposto da otto regioni a guida centrodestra e messo a punto dal leghista Roberto Calderoli: lo scopo dei proponenti è cancellare la parte proporzionale del Rosatellum per ottenere un sistema basato interamente sui collegi uninominali come in Gran Bretagna. Tra i costituzionalisti ci sono molti dubbi sull’ammissibilità del quesito perché lascerebbe un vuoto normativo di circa due mesi (il tempo necessario che serve per disegnare i collegi uninominali), ma nessuno può essere sicuro oggi di che cosa deciderà la Corte a gennaio. Nel caso in cui il referendum dovesse essere accolto è chiaro che approvare in Parlamento una legge elettorale proporzionale per bloccare la celebrazione del referendum abrogativo del Rosatellum (il referendum abrogativo della Lega, si badi bene, non ha nulla a che vedere con il referendum confermativo che si potrebbe tenere contro il taglio dei parlamentari, anche se i due referendum si incrocerebbero di certo in un caos istituzionale di non poco conto) – pur tecnicamente possibile – sarebbe politicamente difficile. Si imporrebbe a quel punto una soluzione simil-maggioritaria.
La Lega, del resto, come Fratelli d’Italia, ha già detto che solo in caso di soluzione condivisa si potrebbe evitare il referendum. Se invece la Consulta dovesse bocciare il quesito leghista, una scelta proporzionalista prenderebbe più vigore. In definitiva, all’interno della maggioranza persistono due soluzioni diverse – il proporzionale con sbarramento al 5% e un maggioritario a doppio turno nazionale – e anche la Consulta giocherà un ruolo per far emergere l’una o l’altra.
NB: Questo articolo è stato pubblicato sul sito di notizie Tiscalinews.it il 14 novembre 2019