Regioni rosse, un mito da sfatare? in attesa del voto in Emilia Romagna
21 Gennaio 2020Sommario
L’Emilia-Romagna al bivio di un voto che è anche un giudizio su 70 anni di governo. Un libro di De Robertis e una ricerca del Cattaneo per capire cosa può succedere il 26 gennaio
Perché le elezioni regionali in Emilia-Romagna sono così cruciali e decisive da mettere in discussione la stessa sorte del governo Conte II e dell’alleanza di governo Pd-M5S?
Per ragioni di ordine politico generale, ovviamente, ma non solo.
Salvini, l’estate scorsa, ha perso la sua occasione per andare al voto anticipato e, se non arriverà uno ‘scossone’ dall’Emilia, la marcia – per quanto poco trionfale – dell’attuale maggioranza di governo potrebbe continuare fino alla conclusione naturale della legislatura. Salvini dovrebbe restare all’opposizione per anni, forse finendo per logorarsi, e la maggioranza di governo potrebbe approvare una nuova legge elettorale (il Germanicum) di impianto proporzionale che gli renderebbe più difficile la vittoria.
Ma esistono anche ragioni specifiche e legate alla regione Emilia-Romagna in quanto tale: investono direttamente il suo governo, sempre restato in mano, da più di 70 anni, alla filiera Pci-Pds-Ds-Pd. L’Emilia-Romagna come “regione rossa” per eccellenza, dunque, un ‘fortino’ che la Lega e il centrodestra vogliono espugnare per decretare la fine del (presunto?) ‘buongoverno’ della sinistra, provocando una crisi politica nel Pd che, da locale, diventerebbe nazionale. Possibile? Sì, certo.
Un libro e una ricerca molto utili per inquadrare il tema
Per inquadrare – e, in parte, sfatare – il mito delle ‘regioni rosse’ (Emilia-Romagna in testa) ci serviremo di un libro, uscito di recente, scritto dal caporedattore del Quotidiano Nazionale, Pierfrancesco De Robertis, “Berlinguer ti volevo bene. La crisi della sinistra nelle ex regioni rosse” (Minerva edizioni) e di uno studio dell’Istituto Cattaneo di Bologna, “Allerta rossa per l’onda verde”, uscito già nel novembre del 2019 e curato dal ricercatore dell’Istituto, Marco Valbruzzi.
Sul piano elettorale le ‘regioni rosse’ già non lo sono più
Il libro di De Robertis esamina il mito delle ‘regioni rosse’ (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche) e il loro lento ma inesorabile declino anche dal punto di vista elettorale. Se la sinistra italiana ha dimezzato, nell’intero Paese, i suoi voti dal 2008 al 2018 (da dodici milioni a sei milioni), l’area dei partiti di sinistra, dal 1948 al 2018, si è ridotta ancora di più, dal 59,2% al 30,1%, nelle quattro regioni rosse. Lo scossone iniziale è del 2013, con l’esplosione dell’M5S, e arriva a compimento nel 2018, quando il primo partito nelle quattro regioni rosse non è più il Pd, ma l’M5S e la prima coalizione non è più il centrosinistra ma il centrodestra. Alle Politiche del 2018, infatti, il Pd ottiene, alla Camera, il 26,4% e 668 mila voti, scendendo di altri 11 punti rispetto al 2013, superato dall’M5S (27,5%), sempre guardando all’Emilia-Romagna. Un dato che si conferma alle europee del 2019, dove però il primo partito diventa la Lega che batte il Pd in tutte e quattro le regioni rosse (con 33,7% e 759 mila voti assoluti), poi nel 2019 passano alla Lega Forlì, Ferrara e Sassuolo.
“Non solo le regioni rosse diventano contendibili – scrive Valbruzzi del Cattaneo – ma la loro contendibilità è massima e, in vista del voto regionale del 2019-2020, diventano l’area geopolitica dove il centrodestra e la Lega concentra i suoi sforzi in vista della vittoria finale”. Dopo aver vinto in tutte le competizioni elettorali che si sono succedute dalle Politiche del 2018 in poi, la Lega ha già espugnato la prima regione rossa, l’Umbria, nel 2019, l’Emilia-Romagna è l’obiettivo di Salvini per il 26 gennaio, poi toccherà, a primavera del 2020, a Toscana e Marche.
Parlando di comuni, è ancora solido l’insediamento rosso a Bologna e provincia (solo Imola è andata ai 5Stelle, gli altri comuni sopra i 15 mila abitanti sono governati dal Pd), ma la parte nord ha abbandonato la sinistra (prima Parma, poi Piacenza), infine hanno capitolato Ferrara e Forlì nel 2019, Nei comuni della provincia di Modena sopra i 15 mila abitanti, dal 2019 ci sono cinque sindaci di centrodestra (alcuni rilevanti come Sassuolo) e nove di centrosinistra. In Romagna lo sfondamento è evidente: il centrodestra, nel 2019, ha vinto a Forlì, Riccione, Bellaria e in provincia di Rimini il Pd governa soltanto il capoluogo e poco altro.
Una lunga storia di potere che dal Psi era passata al Pci
Anche il trend storico dei voti ha dell’impressionante. In Emilia-Romagna il Fronte Popolare (Pci-Psi) ha il 50,5% dei voti nel 1948, quando perde pesantemente contro la Dc alle Politiche, il Pci ha il 46% dei voti nel 1987, l’Ulivo il 51,7% nel 1996, il Pd il 45,4% nel 2008, crolla al 26,3% nel 2018, dato solo parzialmente recuperato col 31,2% alle europee.
E pensare che già il Partito socialista governava Emilia e Toscana nel primo dopoguerra (il Psi aveva il 60% dei voti contro una media nazionale del 32%) e che, dopo vent’anni di dittatura fascista, il Pci ha continuato a governare prima i comuni (dal 1945) e poi le regioni rosse (dal 1970) in modo ininterrotto dal secondo dopoguerra. Per il Pci, uno scrigno di voti ma anche di potere: quattro delle federazioni più ricche d’Italia su cinque erano emiliane e romagnole. Feste dell’Unità, Case del Popolo, circoli ricreativi erano i più grandi e meglio organizzati dell’intero ‘sistema’ del Pci.
Nelle regioni rosse, scrive De Robertis, “dal dopoguerra in poi fu il blocco di potere comunista, con il suo bagaglio ideologico e la sua impostazione culturale, a dettare la linea, portata avanti con il partito e le sue varie sfaccettature: il sindacato, le organizzazioni di categoria vicine al partito, le associazioni sportive, l’Arci, l’Anpi, le organizzazioni femminili, le polisportive, il mondo ambientalista e quello dei cacciatori, i patronati, i centri di assistenza fiscale. Ogni ambito della vita aveva la sua ‘versione’ rossa contrapposta a quella ‘bianca’ della Dc”.
La crisi arriva con la globalizzazione e con i vincoli europei
I risultati, fino agli anni Ottanta, vi furono e furono positivi, poi arrivarono la caduta del Muro di Berlino (1989), che scongelò i rapporti politici, ma soprattutto la crisi economica che investì i paesi dell’Occidente negli anni Duemila con la globalizzazione, mandando in crisi anche la sinistra. L’elezione diretta dei sindaci (1993) e dei governatori (1995) rese ‘contendibili’ anche le regioni rosse e le tante, troppe, trasformazioni degli eredi del Pci in Pds-Ds-Pd mise in crisi la macchina organizzativa del vecchio ‘partitone’. “La classe dirigente diventa oligarchia” nota De Robertis “e il metodo della cooptazione ai vertici ne abbassa il livello” squassando il mito delle regioni rosse.
Poi arrivarono i vincoli europei stabiliti dai parametri di Maastricht e la riduzione dei trasferimenti statali alle regioni, ma anche la riforma del Titolo V della Costituzione (2001) che produsse “numerosi guasti a livello di finanza pubblica locale perché moltiplicava i centri di spesa” scrive De Robertis, provocando tagli, specie nella sanità.
Il tema immigrazione, brandito come una clava da Salvini, ha fatto il resto, facendo crescere la Lega specie nei centri più piccoli, mentre in quelli più grandi il Pd, in qualche modo, ‘tiene’, tranne nelle zone periferiche delle città, dove passa la Lega.
“E’ la rottura di un legame storico, quello tra sinistra e territorio” che De Robertis individua, in via generale, in quattro fattori: la caduta del Muro di Berlino che ha ‘scongelato’ il voto ideologico; Tangentopoli che, facendo crollare il sistema dei partiti della Prima Repubblica, ha colpito al cuore anche il ‘partitone rosso’; la crisi internazionale seguita alla globalizzazione che, dal 2008, ha messo in crisi l’economia dei territori provocando, nei cittadini, incertezze e paure; la drastica riduzione dei trasferimenti statali agli enti locali avvenuta dagli anni Duemila in poi che ha essiccato la fonte con cui partiti già in difficoltà governavano il consenso locale.
A causa di questi fattori, il patto non scritto tra territori e politica, di cui la sinistra ha a lungo beneficiato, è saltato: “la sinistra si è fatta irriconoscibile in primo luogo tra la propria gente che non si rispecchia più in un ceto politico clientelare e autoreferenziale” spiega De Robertis.
I campanelli di allarme: Guazzaloca e la ‘vittoria’ di Bonaccini
Il primo campanello di allarme risale alle comunali del 1999 a Bologna, vinte dal ‘macellaio’ Giorgio Guazzaloca: un civico sostenuto dal centrodestra espugna la roccaforte rossa e diventa il primo segnale d’allarme, ma poco compreso da una classe dirigente, quella post-comunista, colpita anche da pesanti scandali (come accadrà anche in Umbria) o da altri forti fenomeni di clientelismo.
Dopo il ‘caso’ Guazzaloca, che dopo un solo mandato perde e vede Bologna tornare a ‘sinistra’ con Sergio Cofferati, che però instaura una sindacatura da ‘legge e ordine’ che, già allora, avrebbe dovuto far riflettere molti, a sinistra, l’altro campanello d’allarme suona alle regionali del 2014: Bonaccini – che si presenta dopo le dimissioni dell’ex governatore Vasco Errani, travolto da uno scandalo da cui uscirà, peraltro, e dopo anni, assolto – vince, ma va a votare solo il 37% degli elettori e Bonaccini diventa sì governatore, ma con appena il 18% degli aventi diritto.
La prima rottura sentimentale: l’M5S nasce in Emilia e dilaga
Ma prima dell’exploit Lega l’elettorato ‘sosta’ in area M5S, che proprio in Emilia nasce (il Vaffa day nasce a Bologna nel 2007) e conquista la sua prima città, Parma, nel 2012 (con Pizzarotti), anche se poi proprio in Emilia il Movimento andrà in crisi, perdendo prima Parma e, da poco, anche Imola.
Si realizza la prima “rottura sentimentale” della sinistra con il suo popolo, nota De Robertis, finché non esplode la questione immigrati e l’elettorato transita verso la Lega. “A votare Lega – scrive l’autore di “Berlinguer non ti voglio più bene” – sono ceti operai, dipendenti, piccoli imprenditori, ma i motivi non sono solo culturali (il nucleo valoriale della sinistra che evapora), ma anche economici. La crisi morde soprattutto dalla Romagna al ferrarese, dalla fascia montana a quella più vicina alla Lombardia. Si vota per sentimento, portafoglio e rabbia come a Ferrara, in Romagna e in altre città minori, tranne in quelle grandi” conclude la sua approfondita e puntuale analisi De Robertis.
“Allerta rossa per l’onda verde”. Lo studio del Cattaneo
Passando allo studio del Cattaneo (“Allerta rossa per l’onda verde”, curato da Marco Valbruzzi ed edito a novembre del 2019), ma come si evince anche dal libro di De Robertis, la spaccatura tra centri urbani e zone più rurali e periferiche in Emilia-Romagna è sempre più evidente.
Alle Europee 2019 i piccoli Comuni, persa la loro comunità ideologica di valori che il Pci aveva saputo ricompattare, diventano secondo infatti solo “campanili” alla ricerca di una rassicurante protezione della loro identità e per questo sono orientati maggiormente a votare verso la Lega.
Il Pd è più saldo nei centri storici delle città, e può contare su un elettorato “economicamente sicuro”, composto al 29,3% da liberi professionisti mentre il 12,2% degli operai vota convintamente per Salvini, e il 10% degli studenti premierebbe Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia.
Esistono ‘due’ Emilia-Romagna, dunque, spiega il Cattaneo. Quella delle città, che votano tendenzialmente a sinistra e si riconoscono nel “popolo delle sardine”. E quella del cuore rurale delle province, orientata sulla Lega. “Appena ci si allontana dalle città più grandi, con una visione più aperta verso i cambiamenti – spiega Valbruzzi – il sentimento degli elettori cambia anche notevolmente assieme al voto espresso. A Bologna è assai prevalente un orientamento progressista, multiculturale, europeista e quindi molto affine al Pd. Ma basta spostarsi nei comuni più piccoli e lì prevale un sentimento di difesa”.
Le due Emilie-Romagne: grandi città contro piccoli centri
La Lega, sottolinea Valbruzzi, “ha uno strapotere nel Ferrarese e nel Polesine, dove è marcata l’influenza veneta, a cui va aggiunto l’effetto da periferia dimenticata”. Un concetto che vale anche per la fascia appenninica, al confine con la Toscana. “Va poi registrata – continua lo studio del Cattaneo – una grande isola leghista tra Forlì e Cesena e l’area a Nord-Ovest, tra Parma e Piacenza, dove pesa la vicinanza (non solo geografica) al tessuto produttivo della Lombardia”.
Numeri alla mano, spiega lo studio dell’Istituto Cattaneo, la situazione è questa: prendendo in esame i risultati delle ultime Europee, in Emilia-Romagna c’è un blocco tra 990 mila e un milione di elettori che ha votato per il centrodestra; poi c’è quello di centrosinistra tra 830-850 mila voti. A decidere sarà dunque il blocco di voti del M5S (290mila voti alle europee), “ma i dati dimostrano che una parte degli elettori M5s si sono già spostati verso la Lega alle ultime Europee”.
Ma conterà molto anche il giudizio sul candidato presidente
Certo, conterà anche molto il giudizio sul candidato presidente uscente (Bonaccini) e quello sulla sua sfidante (Borgonzoni) con il primo in netto vantaggio sul secondo. In un sondaggio dell’Istituto Swg condotto su otto presidenti di Regione il lavoro di Bonaccini è giudicato “efficace” dal 62% degli intervistati, con il governatore emiliano al secondo posto dopo il governatore del Veneto Luca Zaia.
La strategia di personalizzazione di Bonaccini, che si presenta sempre più ‘solo’ e fa campagna “oltre le sue liste”, Pd compreso, è quindi “quella giusta”, sostiene sempre Valbruzzi, perché conta sull’apprezzamento che il governatore riscuote, ma ci sono anche tanti altri elementi che andranno a incidere sul risultato finale.
Gli indecisi, soprattutto, sono ancora il 15% dell’elettorato — in numeri assoluti 400mila elettori — e saranno alla fine loro i voti determinanti per incoronare il vincitore.
La nostalgia del futuro e l’incognita del peso delle Sardine
Il Cattaneo giudica l’elettorato dell’Emilia-Romagna “sospeso tra voglia di andare avanti e nostalgia dei valori del passato”. A sostegno di questa valutazione ci sono le principali paure espresse dagli emiliano romagnoli, che sono il timore per “il futuro dei figli” (14,3%) e l’ansia per la “mancanza di valori” (13,1%). Per l’istituto sono il sintomo di una “nostalgia di futuro” e cioè nascondono “il desiderio di guardare al futuro portandosi dietro un pezzo di identità”. Forse per questo il movimento delle sardine ha avuto origine proprio qui “perché è figlio di questo smarrimento di valori, di questa nuova domanda di senso cui la politica non ha saputo finora dare risposte”.
Ma riuscirà un movimento spontaneo, quello delle Sardine, nato ‘dal basso’ e privo di bandiere, anche se ormai appare decisamente orientato a ‘dialogare’ con il Pd e la sinistra (ma anche con l’M5S e il governo) a fermare l’onda verde e, soprattutto, a sostituire le antiche certezze del ‘partitone’ e la ‘cinghia di trasmissione’ sociale che il Pci garantiva? Solo le elezioni del 26 gennaio, diranno se le ‘regioni rosse’ resteranno a sinistra, ma la loro storia, che ha segnato un’epoca, è finita.
NB: Questo articolo è stato pubblicato per il sito di notizie Tiscalinews.it il 21 gennaio 2020