Il Pd è un pacchetto di mischia. Si apre l’Assemblea nazionale e si scaldano i candidati per le primarie. Nomi papabili e giochi interni

Il Pd è un pacchetto di mischia. Si apre l’Assemblea nazionale e si scaldano i candidati per le primarie. Nomi papabili e giochi interni

17 Novembre 2018 2 Di Ettore Maria Colombo

Premessa lavorativa. Con questo articolo di presentazione dell’Assemblea Nazionale del Pd ho iniziato una collaborazione con il sito di notizie Spraynews.it  Il mio primo articolo è stato pubblicato ieri qui lo ripubblico integralmente con qualche piccola aggiunta di ‘ultime notizie’.

 

A che punto è la notte? Il Pd si presenta lacerato al suo interno. 

 

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Il logo ufficiale del Pd

Marco Minniti si candida? (Pare di sì, alla fine e persino in ticket con una donna, l’ex cigiellina Teresa Bellanova). E Maurizio Martina ? (ci sta riflettendo, ma pare di no). E tutti gli altri (Boccia, Richetti, Damiano, Corallo)? Sì, assolutamente. Ne arriveranno ancora di candidati? E’ possibile. Il congresso del Pd, che si concluderà, come sempre, con l’ordalia delle primarie, inizia a interesse qualche cerchia di persone in più dei dirigenti e dei militanti dem che – a loro volta – seguono stancamente l’evolversi del quadro interno.

Cerchiamo di capire, allora, cosa potrebbe accadere oggi. Si apre questa mattina, all’hotel Ergife di Roma, l’Assemblea nazionale del Pd, e cioè il suo massimo organo statutario, composto da mille persone aventi diritto di voto più altri trecento ‘invitati’ ma che non possono votare. In teoria, all’ordine del giorno c’è un solo punto, le dimissioni del segretario reggente – eletto all’ultima Assemblea del Pd, lo scorso giugno – Maurizio Martina e l’indizione del nuovo, e straordinario, congresso del Pd con annesse primarie che dovrebbero tenersi il 3 marzo del 2019, anche se, in un primo momento, i maggiorenti del Pd avevano pensato di tenerle a gennaio e poi a febbraio, ma poi si sono resti conto che ci sono, di mezzo ben due elezioni Regionali (in Sardegna e in Basilicata), quindi ecco spuntare il mese di marzo…

Dentro l’Assemblea Nazionale tutti i giochi sono possibili (e aperti)

 

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Il segretario del Pd Maurizio Martina

Ma, oggi, all’Ergife, tutto è possibile. Infatti, se qualche buontempone (o qualcuno politicamente indirizzato da altri, ovviamente) si alzasse e chiedesse di votare ‘contro’ le dimissioni di Martina o proponesse di eleggere un nuovo segretario non con le primarie, ma ‘dentro’ l’Assemblea, tutto potrebbe succedere, i giochi riaprirsi e l’Assemblea diventare una bolgia infernale con annessi scambi di accuse e di veleni. Se, invece, tutto filerà liscio, le dimissioni di Martina saranno accolte, verranno nominate due commissioni congressuali (quella Statuto e quella elettorale) e l’unico organo che resterà in carica “per il disbrigo degli affari correnti” sarà il presidente dell’Assemblea, Matteo Orfini (pur se, a sua volta, dimissionario) mentre la segreteria Martina sarà stata la più breve (e, oggettivamente, incolore) nell’ormai lunga storia del Pd (nato il 2007).

 

Infatti, in base allo Statuto, Martina sarebbe dovuto restare segretario fino al… 2020. Un tempo biblico e inaccettabile per i diversi (tanti, troppi) contendenti alla carica di segretario che smaniano anche solo all’idea di lanciarsi alla guida del partito. Eppure, il Pd ha preso una sonora sberla elettorale alle elezioni politiche dello scorso 4 marzo (il 18% dei voti, 6.134.727 in voti assoluti alla Camera dei Deputati), realizzando il punto più basso, in termini di consensi, della sua storia e di quella della sinistra (solo nel 1992 il Pds di Occhetto riuscì a fare peggio con il 16% dei voti…), ha eletto una manciata di parlamentari (91 deputati e 45 senatori) ed è entrato in una crisi politica profonda tra richieste di scioglimento (l’ex ministro Carlo Calenda) e proposte di cambiamento radicale di nome e simbolo (Orfini e altri) mentre i suoi padri fondatori – da Walter Veltroni a Romano Prodi – se ne sono allontanati in modo quasi ‘radicale’.

 

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L’ex premier e leader del Pd, Matteo Renzi

Inoltre, il giorno dopo le elezioni, il segretario uscente, Matteo Renzi, si è dimesso, causa il catastrofico risultato occorso, e la palla è passata, appunto, all’Assemblea nazionale che ha eletto Martina – già ministro e vicesegretario di Renzi – prima come ‘reggente’ del partito e poi, a giugno, come segretario con pieni poteri. La segreteria di Martina, però, si è consumata in un amen, nonostante qualche tentativo mediatico – presto fallito – di far parlare di sé come le segreterie convocate nelle periferie di diverse città (Torbellamonaca a Roma, Bagnoli a Palermo, lo Zen a Palermo) mentre il Pd, durante la crisi di governo, si lambiccava sulla necessità di partecipare, in posizione subalterna, a un “governo del cambiamento” guidato dall’M5S o rassegnarsi a finire nell’angolo, cioè all’opposizione. Per la prima tesi premevano alcuni big (gli ex ministri Franceschini, Orlando, Delrio e Pinotti, ma anche il segretario Martina), per la seconda Renzi e i suoi. “Senza di me” è la (riuscita) campagna social dei renziani, che peraltro ancora conservano la maggioranza nel partito, sia dentro i gruppi parlamentari che dentro gli organismi statutari (Direzione e, appunto, Assemblea nazionale) e così il Pd è finito all’opposizione (dura) del governo gialloverde, anche se con malcelata tristezza da parte di big non avezzi alla bisogna.

 

Zingaretti è già in campo, gli altri si scaldano dalla panchina…

 

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Il governatore del Lazio Nicola Zingaretti

A metà ottobre, però, si è verificato un fatto nuovo. Il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, rieletto alla guida della Regione per il rotto della cuffia, ha annunciato la sua candidatura – che in realtà covava da mesi – alla guida del partito con un’iniziativa popolare (peraltro assai ben riuscita) all’ex Scalo di San Lorenzo di Roma che viene ribattezza ‘Piazza Grande’. Con ‘Zinga’ – come lo chiamano i suoi – si è schierata subito la sinistra del partito (l’area Orlando), ma anche molti big (Franceschini, Fassino, Pinotti, etc.) che, a Renzi, la vendetta – sia per la composizione delle liste elettorali sia per come ha guidato il partito, travolgendolo nella sconfitta alle Politiche ma anche al referendum costituzionale – “l’hanno giurata” da tempo. Tra questi, figura anche l’ex premier uscente, Paolo Gentiloni, che con Renzi ha avuto più di un attrito, durante il suo governo, su diversi e cruciali dossier.

 

A ruota, cioè subito dopo l’autocandidatura di Zingaretti, ma alcuni anche prima, escono un’altra serie di candidati, veri o finti, già bollati come i ‘dieci piccoli indiani’ del Pd (Pd, e “Dieci piccoli indiani”; corrono per diventare segretario, ma solo Zingaretti ha buone chanches ).  Si va dall’ex renziano, oggi in proprio, Matteo Richetti, all’ ‘emiliano’ (nel senso del governatore della Puglia, Michele Emiliano) Francesco Boccia, dall’ex ministro Cesare Damiano, che ha fondato anche una microcorrente, i ‘Laburisti dem’, al giovane Dario Corallo (figlio di un giornalista dell’Ansa, Paolo Corallo) che si lancia da outsider e senza alcuna rete ma che promette battaglia con uno slogan (“Questi dirigenti devono andare tutti a casa!”) che ricorda…il famoso urlo liberatorio contro l’Ulivo di Nanni Moretti.

Infine, anche il segretario – da domani dimissionario – Martina manifesta la sua volontà di essere della partita dopo aver avuto un discreto successo alla manifestazione indetta contro il governo, a piazza del Popolo, il 30 settembre. Poi, però, Martina attende che passino, senza dire nulla sul suo futuro, sia il consueto show della Leopolda (nona edizione) che Renzi organizza a Firenze il 19-21 ottobre, sia la conferenza programmatica di Milano del 28 ottobre. E così, Martina – che potrebbe godere dell’appoggio dell’area dei Giovani Turchi, che fa capo a Matteo Orfini, sia di quella del capogruppo alla Camera, Graziano Delrio – fa scorrere tempo nella clessidra senza sciogliere la riserva.

 

Minniti pronto a sciogliere la riserva e in ‘ticket’ con Teresa Bellanova.

 

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L’ex ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd)

Non che la galassia (o, meglio, la corrente) renziana stia messa molto meglio. Infatti, neppure la prima riunione di ‘area’ dei renziani (Renzi si era sempre fatto un vanto di ‘non’ avere una corrente come tutti gli altri big del Pd…), che si è tenuta a Salsomaggiore tra il 9 e il 10 novembre, scioglie il nodo di quale sarà il ‘campione’ del renzismo. I renziani hanno, sostanzialmente, l’anima divisa in due: c’è chi – e sono i pasdaran del renzismo (Andrea Marcucci, capogruppo al Senato, Sandro Gozi, Ivan Scalfarotto, etc.) – preme affinché Renzi molli gli ormeggi e lasci alla rinata ‘Ditta’ (quella impersonificata da Zingaretti) il partito per fondarne uno del tutto nuovo, liberal ed europeista, e chi – i renziani ‘moderati’ come Lorenzo Guerini e altri ex della Margherita che fu – vogliono dare battaglia al congresso, ma che, anche se lo perdessero, non vogliono uscire dal Pd. Ed è qui che entra in gioco l’ultima, possibile, candidatura.

Quella dell’ex ministro degli Interni, Marco Minniti, che ormai da almeno due mesi sta girando l’Italia come una trottola ‘con la scusa’ di presentare il suo libro (Sicurezza è libertà), suscitando molto interesse e consensi. Minniti dovrebbe sciogliere la sua ‘riserva’ a giorni, dopo aver aspettato fin troppo a farlo (probabilmente lo farà domenica, cioè dopo l’Assemblea), ma pretende ‘mani libere’ dalla galassia renziana, ‘Giglio magico’ (Lotti, Boschi, etc.) in testa. Insomma, vuole essere un candidato “che unisce” e non “che divide”. Se Minniti si lancerà per la carica di segretario si vedrà, ma certo è che il Pd è un partito, ora più che mai, ‘diviso’, non certo ‘unito’. In sostanza, almeno Martina dovrebbe ritirarsi, nei desiderata di Minniti, mentre i renziano ora vogliono affiancargli (per controllarlo?) la ex Cgil Teresa Bellanova.

Infine, una notazione curiosa sulle regole del congresso. Se, alle primarie del marzo 2019, nessun candidato supererà il 50,1% dei voti, i primi tre meglio classificati (Zingaretti, Minniti e Martina, molto probabilmente) dovranno strappare l’elezione proprio in un catino, quello dell’Assemblea nazionale, che si rinnoverà insieme alle primarie, eleggendo nuovi mille delegati (con listini bloccati e legati, ognuno di essi, al candidato segretario che avranno scelto di appoggiare) e dove tutti i giochi potrebbero riaprirsi. Ad esempio con l’alleanza di due dei candidati meglio piazzati contro il terzo. Insomma, ‘grazie’ all’arzigogolato e astruso Statuto del Pd, tutto può ancora succedere, in Assemblea, oggi e domani.


NB: Questo articolo è stato pubblicato in forma originale il novembre 2018 per il sito Spraynews.it .